La cosa stravagante di questo blog è, come dice con ironia Matteo, che trasuda feroce ottimismo, tutto preso come sono, io che lo animo, a sognare di apocalissi future.
La terra del domani me la immagino un posto tranquillo e silenzioso.
Nessuna meraviglia, quindi, se mi sono buttato a capofitto nel Survival Blog.
Sono in fase di scrittura da quanto? Quasi due mesi. Il ché significa che parte del mio pensiero è continuamente con quei pochi personaggi di cui narro le gesta. Respiro la loro stessa aria, avverto il medesimo freddo e, vanto dell’actor’s studio, percepisco, o mi sforzo di percepirne l’identica paura.
Non la paura dei morti, là fuori, ma quella dell’avvenire.
Altra cosa, quando sono in questa fase, mi allontano dai libri e anche dai film a tema per evitare di assorbire, sia pure involontariamente, ambientazioni e situazioni pensate da altri al mio posto.
Non voglio essere un buon riciclatore. Ma è pur vero che le idee che circolano sono molto simili, e le possibilità della nostra realtà limitate.
L’apocalisse, intesa come genere narrativo, è ricca di stereotipi, derivanti per la maggior parte da pessimo cinema, ma può essere ancora vitale e spingersi, come la fantascienza, verso riflessioni di carattere assoluto: l’esistenza.
Questo post nasce come risposta a una gentile mail ricevuta nei giorni passati. Nessun tono polemico o smaccatamente ironico, per una volta. Ma un sincero scambio di vedute. Grazie.
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Ammessa la sopravvivenza come condicio sine qua non, e per di più incidentale se non obbligatoria, sistema di narrazione che può essere interessante per i primissimi momenti e rispondere all’immediato interrogativo di moltissimi, “Cosa farei io al posto loro?”, dopo resta la quotidianità, goffa e noiosa, che scandisce un giorno dopo l’altro.
Dal punto di vista della narrazione, volendo affrontare l’individualità, preferisco pochi personaggi. Due, massimo cinque. Ben determinati e dalle dinamiche già indirizzate.
Un nucleo maggiore tende a ristabilire, per forza di situazioni e dialoghi, dinamiche precise alle quali si giunge attraverso situazioni conflittuali inevitabili. La specie umana e sì sociale, ma quando le cose sono belle e comode per tutti. Oppure subentra l’invidia. Da cui il contrasto.
Sono anche convinto che queste ultime considerazioni riescano persino ovvie a molti di voi, ma non a tutti.
Ma, il punto della narrazione legata al SB, qual è? Divertirsi, senza dubbio, eppure provarci. Provare a immaginare la vita fra cinque anni, gli ultimi dei quali trascorsi fuggendo e nascondendosi.
Appurato lo scetticismo che c’è in giro, tipico di una cultura che non si pone più domande e che dorme, ormai, sulle proprie false certezze e su un conseguente senso di sicurezza, che porta a liquidare come fesserie la possibilità di una pandemia e conseguente dilagare di infetti aggressivi e violenti e la successiva estinzione dell’umanità, ecco che le prime cose cui si bada leggendo la serie di racconti apocalittici sono: la qualità delle armi, spesso lamentandosi della presenza nel testo di armi merdose, tipo i fucili, molto meglio quelli automatici, pesanti, anche se impossibili da reperire per uomini “normali” sopravvissuti chissà come e, in secondo luogo, dell’unica interazione con gli infetti/zombie socialmente accettabile dagli scettici, ovvero il numero delle uccisioni, in stile Rambo.
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Questo è indicativo di moltissime cose: la fine del mondo è solo un videogioco. I sopravvissuti non sono esseri viventi, ma figure manovrabili che devono fare il lavoro sporco e far fuori la maggior parte degli infetti possibile, per il divertimento di chi legge.
Per me non è così. Forse non lo è neppure per molti di voi. Questa è un’occasione per provarci. Tentare di sondare il mio io, non per niente il protagonista è il mio alter-ego, immaginarselo alle prese con una situazione estrema, paradossale tanto quanto folle, eppure non impossibile in senso assoluto.
Allora, diventa persino utile, non so a cosa, forse a noi stessi, tentare di prevedere le proprie reazioni di fronte a certi eventi disastrosi, di fronte all’inevitabile egoismo, tipico dei miserabili, che io e molti di voi tireremmo fuori in altrettante occasioni e, soprattutto, non già fare i conti col proprio passato, ma ipotizzare di riuscire a plasmare un nuovo modo di vivere e di pensare.
Questo è il mio SB, nelle intenzioni. Nei fatti, non so come la pensiate voi che l’avete letto, ma per me non lo è. Per una serie di limitazioni. Non ultimo il pensare in grande.
Scrivo, ma la strada è ancora lunga. Non potrebbe essere altrimenti. Il blog è uno strumento interattivo affascinante che consente, attraverso un connubio di opzioni quali scrittura, immagini, musica, di proporre un bombardamento di suggestioni emotive che è tipico del cinema, ma è pur vero che trattasi di strumento finito. Il limite è nell’attenzione di chi legge e nelle dimensioni dei post che per questo sono costretto a contenere, diversamente da quanto farei in un romanzo vero e proprio.
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L’idea è iniziata dal presentare una realtà pulp e scanzonata. Una realtà possibile per un blogger quale io sono, capace di snocciolare citazioni cinefile in quantità, che vagheggia miti del cinema e che modifica scientemente il proprio lessico ispirandosi a battute memorabili. Da qui la scelta di una co-protagonista famosa, una star del cinema. In seguito il tono è cambiato, sfociando sempre più verso l’immedesimazione tragica.
Mi sono divertito anche io a giocare a Resident Evil, ma non è ciò che sono.
Soprattutto in situazioni estreme, quali questa ambientazione, io continuo a prediligere il realismo. Realismo di situazioni, capacità, con tutta la carica ironica che posso o non posso manifestare.
A quel punto, ammesso che sono il tipo che mai è andato pazzo per la messinscena modello Alice che si infiltra nella base della Umbrella Corporation, resta che fissarsi sull’introspezione. Sull’esistenza. Sugli sguardi verso la persona amata o non, colei che si trova accanto a noi a condividere il nulla. Ad alcuni di voi questa scelta piace, ad altri no.
Una buona volta, fatta tabula rasa di ciò che c’era prima, una serie di falsità che sono sparite alla velocità della luce, in questo nuovo mondo che si erge su una flebile speranza, cosa sceglieremmo di portare con noi?
Ho letto nel SB di Alex che ci si dovrebbe sforzare di conservare il ricordo di ciò che eravamo. Milano, nella fattispecie.
Quest’ultimo è un concetto interessante. Poiché è da giorni che mi domando cosa sia giusto conservare di questa realtà, vista l’insoddisfazione generale, che colpisce a tutti i livelli. Una domanda enorme, alla quale io per primo non saprei dare risposte sensate.
In uno scenario apocalittico, superata la fase del lutto, della perdita e del rimorso, banali ma inevitabili, sarebbe davvero giusto serbare proprio tutto quello che siamo stati, noi in quanto specie?
O sarebbe meglio pensare finalmente a qualcosa di nuovo, privandosi una volta per tutte dei fantasmi del passato?
Ci vuole più coraggio a rinunciare, piuttosto che a rifugiarsi nella vecchia quotidianità. O almeno è così che la penso, per il momento.
Il SB sta per finire. A quel punto sarà interessante ragionarci su, ancora per un po’.
Voi, come la pensate? Cosa resta, in fin dei conti, dopo la fine del mondo?