Anno 1956. La Seconda Guerra Mondiale era finita undici anni prima e, insieme al potere dell’atomo e all’aberrazione della storia umana, si era precipitati in uno stato di paranoia diffusa, dopo la scoperta di alcuni casi di spionaggio clamorosi negli Stati Uniti, in favore dell’Unione Sovietica.
Due anni prima era capitato quello che poi sarebbe passato alla storia come Maccartismo.
Così, Don Siegel e Jack Finney, autori de L’invasione degli Ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers) si incaricano di tradurre in immagini una storia che è sempre stata percepita, nonostante il diniego dei suoi autori, come qualcosa in più di un semplice riferimento al periodo storico, quasi un esorcismo della coeva atmosfera politica, del sospetto generalizzato.
Sull’America trionfante, che si permetteva, come mostrano le primissime inquadrature, di attraversare i binari di una ferrovia senza alcun problema, di indossare vestiti eleganti, pellicce, reggiseni alla moda, il boom economico ottenuto su due fronti di guerra, occidentale e orientale, aleggiava la paura.
Il terrore veniva dall’alto, qualcosa piovuto dal cielo, dal cosmo, o dall’altra parte della cortina di ferro. Creature nefaste, specializzate nell’annientamento, della coscienza, se non del corpo.
L’Invasione degli Ultracorpi è una soluzione radicale, parla di controllo mentale e assimilazione, o peggio ancora, di duplicazione e deprivazione sensoriale.
È il trionfo della paranoia, affidata alla regia granitica di Siegel, lo stesso che decenni più tardi, avrebbe fatto fuggire Clint Eastwood da Alcatraz, che lavora con l’accetta, una regia robusta, concentrata sulla storia, che avanza a passo di parata militare, incoercibile fino alle due parole che fecero altissimo il cinema di quegli anni: The End.
Kevin McCarthy (nomen omen) rientra a Santa Mira, in California, per scoprire che la popolazione cittadina, da qualche settimana, sembra essere affetta da una psicosi collettiva, che porta i singoli individui a dubitare dell’identità dei propri familiari. I sospettati appaiono identici in tutto e per tutto, eppure, in qualche maniera, sono diversi, tanto da terrorizzare.
Il riferimento alla psicosi generata, forse, “da ciò che sta accadendo adesso nel mondo” non sfugge. Si giocava al cinema, instaurando sul set un’atmosfera allegra, che portava Siegel a lasciare baccelli giganti sotto il letto di Dana Wynter, facendole prendere un colpo, e allo stesso tempo, proprio quel cinema di disimpegno, divertente perché narrava storie improbabili, si faceva carico di quelle stesse inquietudini, di ciò che stava accadendo nel resto del mondo, e nella società americana, che viveva questo strano contrasto tra ricchezza e angoscia di perdere tutto quel benessere, di sottostare a nemici così lontani, che un conflitto mondiale aveva rivelato essere più che raggiungibili, proprio dietro l’angolo colorato da albe d’energia catastrofica.
L’Invasione degli ultracorpi è agnizione dell’ignoto, è paura del doppelganger, è dubbio della propria ragione e della propria identità, richiama immediatamente decine di prodotti a posteriori, che hanno verso questo film debiti serissimi. Il tempo e la scarsa volontà di aggiornamento degli spettatori non hanno reso giustizia al prodotto di Siegel che vanta a tutt’oggi una perfezione strutturale, impreziosita da virtuosismi tecnici.
Dubitare del quotidiano significa demolire ogni stolida certezza. Probabilmente i richiami verso la paranoia maccartista sono reali, nonostante le smentite ufficiali, eppure, lasciata da parte la critica sociale e politica coeva, a ben guardare è l’uomo stesso, alla sbarra. L’essere umano privato della certezza, rispedito nel vacuo, nell’oblio, privato delle emozioni, della propria identità.
Il doppelganger è una creatura malefica, perché ci priva dell’unicità. Il concetto del doppio applicato al tutto, in una dimensione universale, priva la storia umana, le azioni, le morti e la guerra, di significato, di scopo. I nemici sono tra noi diventa più che un motto: quasi un dramma esistenzialista, messo in scena da gente che narrava storie di fantascienza che un secolo prima sarebbero state vendute per un penny..
Sì, proprio quella gente che amava i mostri di gomma, i fondali di cartone, gli effetti speciali rudimentali, a base di sovrapposizioni, e i baccelli alieni, che schiumavano per dare origine alle copie di ciascuno di noi.
Si dice che tutti gli attori dovettero essere sottoposti a estenuanti sedute a base di colate di gomma bollente, muniti di cannuccia per respirare, per dare agli ultracorpi l’aspetto di esseri rudimentali nell’atto di copiare progressivamente gli originali.
Alla fine, non è perdere l’identità, che spaventa, o la memoria, sprofondare nell’oblio, ma l’opposto. Il terrore è essere privati della capacità di scelta, data dalle nostre emozioni. Finire sotto una dittatura del pensiero che ci dica cosa pensare e provare, rinunciare a noi stessi, quegli esseri così emotivi che, fino a undici anni prima, non avevano trovato niente di meglio da fare che uccidersi, pur restando simili. Anzi, identici.
Finale edulcorato, quello degli Ultracorpi, con scena posticcia incollata dietro il vero finale inciso nelle parole di McCarthy: “You’re next! You’re next!”.
Siete i prossimi, nell’ordine dell’annientamento sociale. È solo questione di tempo.