Guardando e leggendo di Destinazione Terra (It came from outer space) subito si avverte l’esigenza intriseca propria dell’epoca che l’ha visto realizzarsi: sperimentare e guardare altrove. Oltre, preferibilmente.
Forse in nessun altro film coevo essa appare così evidente.
Ci piaccia o meno, gli anni Cinquanta sono stati l’apogeo della nostra civilizzazione: otto anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, otto anni dalle prime esplosioni atomiche.
L’energia sprigionata dall’atomo era stata intanto studiata più e più volte, e piccole comunità rurali nel deserto scelte come luoghi dove effettuare i test, al sicuro in bunker e protetti da spesse lenti scure.
Sì, c’era il Blocco sovietico, ma gli Stati Uniti, forti della vittoria finale, oltre che imbastire una fittissima rete di spionaggio e controspionaggio, si dilettavano a esportare, vanto della propaganda, il loro efficace modello di vita: automobili, bibite gasate, spot commerciali, sport, rockabilly, tecnologia assortita.
Specie quest’ultima conosceva ingenti e continui investimenti. Da un lato in ambito bellico, per mantenere la conquistata supremazia sul Vecchio Continente e su tutto il resto, dall’altro nel campo dell’intrattenimento, ché altrove, non fosse per la potenza delle armi, l’american way of life sarebbe dovuto penetrare attraverso altri media, il cinema, nella fattispecie. Una distribuzione capillare di meraviglie sul silver screen, registrate e riprodotte su nitrato d’argento.
E quando l’Europa, che ancora si leccava le ferite, viveva al cinema un doloroso realismo drammatico, la fantascienza diventava il genere sperimentale per eccellenza, traducendo in immagini le proprie inquietudini e il proprio monito.
Che, se era vero che, dopo l’atomo, poco restava ancora da scoprire, questa era parimenti una posizione di stolida cecità e orgoglio: lo spazio era vasto e sconosciuto e, come dice lo stesso Richard Carlson all’inizio del film, mille anni prima, noi stessi uomini eravamo convinti che la Terra fosse un piatto colmo d’acqua, tra due enormi colonne…
L’ignoranza verso il tutto è una costante della natura umana oltre che la stessa spinta verso il suo progresso, nel tentativo di colmarla.
Una sete incoercibile.
Esemplare della già citata sperimentazione, Destinazione Terra fu la prima proiezione della Universal in 3D. La Terza Dimensione vissuta come vetta di grandezza, annunciata e spiegata dallo stesso attore protagonista, Richard Carlson, nei trailer in sala. Una nuova tecnologia che garantiva profondità di campo, una percezione rivoluzionaria del film; una innovazione che avrebbe consentito, allo spettatore, di vivere il film e a quest’ultimo di entrare nei teatri.
Diversamente dalla maggioranza dei film del decennio, Destinazione Terra offre un ribaltamento della prospettiva, oltre che una visione saggia del cosmo e dell’essere umano.
Gli alieni che ci visitano, precipitando con la loro astronave (ricordiamo che dall’incidente di Roswell sono passati anche meno anni rispetto a Hiroshima e Nagasaki, appena sei, essendo avvenuto nel ’47) non sono ostili alla specie umana, né per intenzione né per indole.
Essi sono, semplicemente, indifferenti e disinteressati alle nostre sorti, percependo noi altri come ancora primitivi e inadatti a un primo contatto.
La metafora del ragno, calpestato dallo sceriffo perché “diverso”, e per questo percepito come orribile e pericoloso, è esemplare dell’umana natura che aggredisce e annienta tutto ciò che non comprende.
Gli alieni di Destinazione Terra hanno un aspetto rivoltante e per questo vengono immediatamente ritenuti pericolosi.
Nel deserto dell’Arizona, una piccola comunità immaginaria, Sand Rock, diviene involontario ponte verso l’incontro ravvicinato del terzo tipo. Dove un essere umano illuminato e sognatore, John Putnam (Richard Carlson), che è solito trascorrere le sue serate al telescopio, supera l’orrore e il ribrezzo e la superficialità della propria indole e accetta il “diverso”, in nome di un’apertura mentale che non corrisponde, non ancora, alla maggioranza della nostra specie.
Regia di Jack Arnold, sulla sceneggiatura di Harry Essex, a quanto si dice ricalcata, parola per parola, su uno scritto di Ray Bradbury.
Il lavoro di Bradbury conferisce solennità e una discordanza di temi esemplare.
Destinazione Terra era figlio delle inquietudini del suo tempo e offriva un monito universale valido ancora oggi: siamo piccole creature ambiziose, minuscole nei confronti di cose che non sappiamo e che, per la nostra stessa natura, stentiamo a comprendere, preferendo un approccio aggressivo, perché rifiutiamo, specie dopo aver scoperto l’atomo, di non avere alcun controllo su determinati eventi.
La fiducia, la percenzione elevata, oserei dire l’approccio scientifico che sa quando è il caso di intervenire e quando di lasciare che gli eventi facciano il proprio corso è esplicitata non soltanto dalla figura dell’alieno in sé, che ricordiamo si trova sulla terra per errore, avendo altra meta, ma soprattutto nella catena di eventi che segnano lo svolgersi degli eventi fino al climax, dove gli alieni sono costretti, per proteggere se stessi, a tramutarsi in esseri a noi identici, onde non suscitare violenza e aggressività, e a rapire e usare come ostaggi alcuni membri della comunità di Sand Rock per riuscire a completare la riparazione dell’astronave e così riprendere il viaggio.
L’unico modo per evitare che la situazione degeneri e che la natura umana prenda il sopravvento, con grave danno di tutti, è fidarsi di creature che si stenta a riconoscere come intelligenti e addirittura superiori.
Pazientare e continuare a evolverci, scientificamente e emotivamente, fino a quando esse non ci reputeranno adatte a iniziare un proficuo, reciproco scambio.
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