Girato “alla maniera” del thriller psicologico, anche Honeymoon affonda le radici nella metamorfosi, quale veicolo verso l’agnizione finale.
Il riconoscimento della vera identità della protagonista o, nella fattispecie, della sua natura.
In particolare, Honeymoon vanta una doppia agnizione, in cui all’identità dei protagonisti, già palese, viene sostituito, nel ruolo del carattere della scoperta, il vero ruolo dei protagonisti.
Lo scopo del loro agire, infatti, ci viene presentato già determinato, pubblico e… falso. È la scoperta della reale identità di entrambi che ci conduce verso il compimento dell’intreccio.
Leigh Janiak scrive, insieme a Phil Graziadei, quasi una pièce teatrale, con un paio di set, da identificarsi su medesimo palcoscenico, una manciata di attori, tutti funzionali, la generazione di un climax che avanza deciso al culmine che, peraltro, s’intuisce ineluttabile.
E forse, in definitiva, è proprio la sua ineluttabilità a segnare in positivo la narrazione. Gli eventi devono andare così perché i protagonisti hanno a che fare con una forza soverchiante, e da buoni esseri umani, non c’è miracolo che conti, per tirarli fuori dai guai.
Il fatto che i protagonisti siano novelli sposi, che siano in luna di miele, che questo periodo di rifugio temporale dai mali del mondo divenga esso stesso fuga dal quotidiano, ogni cosa è accessoria. Decorativa.
A Harry Treadaway (Paul) è affidato il ruolo di investigatore, suo è il punto di vista principale, ogni cosa la viviamo attraverso i suoi occhi: a lui spetta prima accorgersi e infine accogliere il cambiamento del quotidiano, di sua moglie, l’abbattimento del castello di sogni, accettare, nel corso di un breve weekend, che il mondo come lo conosceva è ormai finito.
Anche lui si scopre, da marito innamorato, investigatore e infine, vittima sacrificale.
Rose Leslie (Bea) è, prendendo in presito la definizione da altri ambiti narrativi, la prescelta. Colei cui spetta un compito determinato, stabilito da forze superiori: i numi.
Poco importa la natura di questi numi, svelata peraltro solo nelle sequenze finali. Ciò che conta è che la loro volontà è superiore de facto.
L’aspetto da considerare, al fine di un’analisi efficace, è la natura dei protagonisti dopo la destrutturazione dei personaggi.
Bea e Paul, spogliati della rispettiva caratterizzazione, delle manie, dei sorrisi, dell’aneddotica con cui sono stati arricchiti perché assumessero un aspetto tridimensionale, sono al solito attanti, secondo il modello attanziale della narratologia, a loro spettano ruoli determinati che permettono all’intreccio di svolgersi.
E se da un lato Paul è colui che subisce volontariamente la successione degli eventi, è il soggetto attivo, a Bea invece è imposta una pietas, una cieca devozione agli dei, con una minima parte di coscienza superstite che le permetta di prendere atto dei cambiamenti assoluti che essa stessa sta attraversando.
Siamo di fronte a un altro tipo di vittima che, a poco a poco, realizza di esserlo, pur non potendo deviare in alcun modo dal sentiero prestabilito, in una pia acccettazione di un’influenza superiore e inevitabile.
Poco importa, alla fine, se il cosiddetto nume sia una personalità dissociata, un dio avverso di qualche religione, una presenza dall’altrove oppure ancora una creatura da un mondo esterno; ancora una volta la narrazione si fa beffe dei generi, che sono soltanto maschere e ornamenti: la dissociazione di Bea da se stessa, la costrizione che piega la sua autodeterminazione sono ormai in atto, lei deve compiere il suo destino ultimo. CHe è quello del cavaliere in un fantasy, della final girl in un horror, dell’ignaro viandante rapito dagli alieni per qualche oscuro scopo.
Bea e Paul sono entrambe vittime, con una differenza sostanziale riguardante unicamente la gestione della volontà. Bea, alla fine, è vittima volontaria, perché piegata da un potere incoercibile; Paul è vittima di costrizione.
Entrambi i personaggi attraversano un percorso di metamorfosi, laddove a Paul spetta una metamorfosi della coscienza, la dura e spietata accettazione che il mondo intorno a lui è cambiato per non tornare mai più alla quieta serenità precedente, Bea, invece, muta sia psicologicamente che fisicamente.
Il suo è un processo di metamorfosi duplice e doppiamente doloroso: s’assiste a una frammentazione della consapevolezza di sé, fin negli elementi più elementari dell’autocoscienza, e alla mutazione del proprio corpo, alterato negli equilibri ormonali, nel bioritmo, infestato da parassiti o ancora meglio, che genera, attraverso il “parto”, un intruso che, a livello simbolico, può essere considerato come la controparte materiale del cambiamento.
In sostanza, Bea accetta finalmente di cambiare nello stesso istante in cui il suo corpo genera fisicamente questa decisione, attraverso un verme osceno estratto da Paul, direttamente dal suo utero.
Dopo questa nascita, fisica e narrativa, della compiuta metamorfosi, l’intreccio precipita verso la doppia agnizione, Paul si riconosce (e viene riconosciuto) in quanto sacrificio, è segnato per motivi imperscrutabili, tipici dei Numi (che vantano un’intelligenza non umana e quindi non comprensibile), Bea diventa officiante, perfettamente schierata dopo l’accettazione, e riconosce se stessa come mezzo di imposizione di una volontà ultraterrena.