Il mio episodio preferito di Black Mirror è Be Right Back.
Tradotto dall’inglese significa “torno subito”, che poi sono le ultime parole che un uomo dice alla propria fidanzata, prima di uscire di casa.
Quell’uomo non tornerà più, perché morirà in un incidente stradale.
Di lui sopravvivono solo gli oggetti che usava, il vuoto negli ambienti che era solito occupare, e i ricordi nella mente della fidanzata.
Ma c’è anche qualcos’altro.
Oggi (come ci saranno ancora nel futuro) ci sono i social network, e sono sempre più attivi e frequentati.
Quindi la memoria storica del defunto non appartiene più soltanto alla sfera intima dei ricordi e a quella fisica dei posti che occupava, delle fotografie che lo ritraggono e degli oggetti che era solito usare, le tracce che tutti noi lasciamo del nostro passaggio, ma anche alla sfera digitale.
In rete, tramite i social network, lasciamo traccia della nostra persona, e anche personalità, se ne abbiamo fatto un uso sincero, non fingendoci qualcun altro.
In breve, nel suddetto episodio si ipotizza di creare, tramite un software, un profilo virtuale del defunto, compilato sulla base di tutta la sua vita online: una vera e propria intelligenza (o simulazione di intelligenza) virtuale basata sulla personalità del defunto.
Scopo di ciò: aiutare coloro che condividevano un legame affettivo con lo scomparso a elaborare più efficacemente la perdita.
Ma siamo sempre in Black Mirror, quindi le cose mostrano abbastanza presto un lato agghiacciante e distopico.
Tuttavia, resta una possibilità oggetto di studio e di teorie controverse il riuscire a copiare il nostro cervello e a riversarlo in un supporto di silicio, o addirittura online.
In breve e in parole povere, dato che il nostro cervello, i nostri ragionamenti, la nostra personalità e forse anche quella ombra indefinita che chiamiamo anima si basano su interazioni elettromagnetiche tra cellule, si ipotizza che un domani sarà possibile copiare, esattamente come un film, l’insieme delle interazioni del nostro cervello, una mappa completa di esso, su un supporto esterno.
Caricheremo quindi una esatta copia di noi online, magari in un cloud, diventando immortali?
Detta così è un po’ troppo semplicistica. Ma ammettiamo che questa copia funzioni.
Potrebbe accadere sul serio?
Forse. O forse non lo faremo mai.
Infatti, per quanto ci piaccia pensare che il procedimento, almeno in linea teorica, sia fattibile, far sì che questa copia di noi risulti viva e attiva e autocosciente non è assolutamente un risultato garantito.
C’è abbastanza materiale per procurarsi un mal di testa, o per scrivere di fantascienza per i prossimi dieci anni (cosa che in effetti sto facendo…).
Si parla spesso di intelligenza artificiale, altrettanto spesso senza cognizione di causa, o abusando della definizione: l’unica cosa che noi siamo riusciti a produrre, dando a questa la forma di robot umanoidi, è un programma.
Programma che in quanto tale si basa su risposte ben definite a seconda degli stimoli.
Se noi ordiniamo a un robot di portarci da bere, il robot eseguirà l’azione. Probabilmente l’anticiperà, intuendo la nostra sete dalla disidratazione degli occhi o della pelle, o dalla nostra espressione facciale, ma la sua sarà comunque una risposta prestabilita che entrerà in gioco di fronte a stimoli ben precisi, più o meno visibili. Sarà celata, il più possibile dissimulata, questa risposta prestabilita, ma rimarrà sempre tale.
Il robot non ci offrirà mai da bere perché è felice di farlo, o per farci un dispetto, o per avvelenarci con un lassativo.
Perché non è autocosciente.
Sì, esatto, anche noi funzioniamo così: siamo risposte a stimoli esterni e/o interni. Beviamo quando abbiamo sete, perché il nostro cervello ci invia un imput.
Eppure, di noi stessi diciamo che siamo autocoscienti.
E la risposta non può limitarsi al “penso quindi sono”.
La verità è che non siamo ancora in grado di trovare una risposta al perché un insieme di cellule come il nostro s’illuda di vantare un certo grado di autocontrollo rispetto all’universo che lo circonda.
E chiariamoci, io sono convinto che questo autocontrollo ci sia, esista. Solo che non abbiamo ancora capito le ragioni alla base di esso.
Fino a quando non lo sapremo, non saremo in grado di creare un altro essere autocosciente, al di fuori della normale procreazione.
Si parla sempre a comunque di intelligenza artificiale.
E non solo.
L’intelligenza artificiale porta, al di là del fondamentale problema dell’autocoscienza, una serie di ostacoli che la allontanano sempre di più da una sua fattibilità imminente:
– anima e corpo
Già affrontato altre volte, questo dilemma: la nostra intelligenza ha bisogno di un corpo per collegarsi al mondo esterno, per tradurlo e perché sia possibile interagire con esso.
Il nostro cervello, da solo, è cieco, muto, sordo, privo di olfatto e anche insensibile al dolore.
In breve, se fossimo fatti di solo nucleo cerebrale, saremmo forse autocoscienti, ma immersi nel nulla.
Il che implica che un’intelligenza artificiale debba essere necessariamente dotata di organi di senso, persino online, perché le sia possibile interpretare il mondo nel giusto modo, perché esista attivamente.
– probabilmente, non riusciremo mai a copiarci
Ok, d’accordo, non riusciamo a creare una intelligenza articiale al di fuori di noi stessi. E come la mettiamo con la copia di noi stessi da mettere online?
Sì… forse nemmeno questa ci sarà mai, dato che la nostra mente funziona, come detto, perché stimolata dall’universo stesso in cui si trova.
Noi siamo così perché il mondo stesso ci ha fatto diventare così.
Nulla ci garantisce di riuscire a copiare efficacemente i nostri complicatissimi processi mentali, e che questi siano ricombinati tanto efficacemente da poter funzionare.
E, nel caso funzionasse, dove saremmo? Non certo nel mondo di TRON, ma in un altro universo, o forse nel nulla stesso.
O addirittura in una realtà completamente diversa: inintelliggibile.
– in un’ambiente diverso, l’intelligenza sarebbe diversa
Sì, dobbiamo rassegnarci al fatto che siamo strettamente legati all’involucro che occupiamo. E che la nostra mente si esprimerebbe adeguatamente soltanto in un involucro simile.
Ok, entrano in gioco i robot. Che poi è il motivo per cui tutti gli studi dedicati alla creazione dell’intelligenza artificiale lavorano su robot umanoidi.
La ragione è proprio la stessa. Un’intelligenzxa simile alla nostra sarebbe in grado di comunicare con noi soltanto attraverso segnali simili.
Se noi creassimo un rinoceronte robot, esso avrebbe rispetto all’ambiente che lo circonda, tutt’altro tipo di reazioni e esigenze.
Le idee vincenti, ma non si sa quanto a portata di mano per ora, sono due:
– implementare la tecnologia e assorbirla nei nostri corpi, in modo da estendere, migliorare le nostre capacità. TUTTE le nostre capacità.
Trasformarci noi, in cyborg.
– riuscire a costruire una esatta copia di noi stessi.
Impresa mica facile: date le infinite variabili che hanno concorso a farci arrivare fin dove siamo.
Una volta creata la copia, essa saprà di essere autocosciente, e simile a noi.
E la temeremo, perché entrerà in gioco la paura istintiva di ciò che ci imita.
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