Gareth Evans, gallese di nascita, diviene maestro del cinema d’azione, per quanto mi riguarda, nel 2011, quando esce il primo capitolo della serie The Raid: Redemption.
In quel film assistiamo a un innesto tra generi cinematografici e culturali: occidente e oriente s’incontrano in un film potente.
Già all’epoca scomodavo paragoni pesanti: Evans si era recato in Asia portandosi dietro le unità aristoteliche, Luogo, Tempo e Azione.
Imbastiva una storia che, inscenando scontri all’ultimo sangue uno contro uno, o contro mille, oltre che le stragi rituali rievocava soprattutto il duello, quale principio fondante per certa civiltà europea, e senza alcun dubbio per quella asiatica.
Una sorta di comunicazione interculturale fondata sul contatto fisico. O sull’idea nobile che di esso si possa avere. Stiamo parlando di distorsioni, eppure il misurarsi all’ultimo sangue con un avversario (più o meno onorevole) per lavare un’onta è patrimonio comune al mondo.
Interessante. Anche se ci si fermasse qui con l’analisi.
Ma non ci fermiamo.
Arrivo anche a dire che, oltre alle unità aristoteliche, Evans applica lo schema dell’Anabasi di Senofonte: il ritorno dell’eroe o del drappello di uomini, che è costretto a passare attraverso l’inferno per raggiungere la sicurezza, o semplicemente per uscire e portare a casa la pellaccia. La moralità non conta. Non proprio.
È la spinta alla sopravvivenza il motivo portante.
Lo stesso schema, se ci pensate, tanto per fare un esempio più famoso, de I Guerrieri della Notte di Walter Hill.
E, infine, questo aspetto comune sia a Redemption che a Berandal, il secondo capitolo, ancora una volta un tema classico che più classico non si può, di entrambe le più diffuse culture mondiali: europea e asiatica:
l’ecatombe, o carneficina rituale. In asiatico, tradotto in inglese, suona esattamente come heroic bloodshed, o spargimento di sangue eroico. Dell’eroe, in buona sostanza, che nello spargere il sangue dei nemici, finisce per versare anche il proprio.
Il sangue, lo sappiamo, è la principale offerta agli dei, la più apprezzata, perché è quella linfa che ci tiene vivi.
Donare il sangue, versarlo, significava compiacere gli dei.
E l’ecatombe era una strage offerta agli dei.
Si offrivano tori, di solito, cento o giù di lì. Ma anche esseri umani: gli scandinavi offrivano nove creature, per nove specie, ogni nove anni a Uppsala, umani compresi.
Donare la vita a chi ce l’ha data sembrava un accordo onorevole.
Quindi The Raid 2: Berandal, che per inciso è tecnicamente perfetto, è costruito interamente sulla figura dell’eroe, Rama (Iko Uwais), medesimo del primo capitolo, e della sua carneficina rituale.
Annullate quasi del tutto quelle che erano le motivazioni personali del protagonista, qui Rama abbandona lo spettro della famiglia, perché costretto, e resta completamente solo, pur attaccandosi in certi momenti a uno spettro familiare che non c’è più, perché dal primo film passano anni durante i quale egli volontariamente abbandona il suo passato, la sua storia, per mettersi al servizio delle avversità.
Direi quasi che Rama abbonda della pietas così tanto cara all’Enea di Virgilio, ovvero una somma devozione alla volontà dei Numi e del Fato.
Accettare il proprio Fato, per quanto infausto e ingrato esso sia, è caratteristica tipica dell’eroe epico.
Allora Rama è puro principio, che si manifesta attraverso una successione di combattimenti esiziali, che a ogni minuto aumentano d’intensità e l’implicazione profonda di ognuno di essi.
Stupisce, ma non troppo, visto che il realismo delle scene è sotto gli occhi di tutti (coadiuvate dall’utilizzo del pencak silat, arte marziale), che pur essendo coreografati, gli scontri fisici sono stati reali, con pugni e calci che hanno trovato il loro bersaglio nei corpi degli attori, pur essendosi esercitati questi ultimi a dosare la forza e a fare amicizia, nei mesi precedenti. Perché l’amicizia avrebbe, come di fatto è successo, spinto ognuno di loro, in caso avessero ricevuto un colpo troppo potente, a non volerlo restituire con gli interessi.
Rama, quindi, abbandona le sue caratteristiche umane.
Ma questo è chiaro fin dal primo capitolo, laddove la resistenza fisica è oltre il realismo. Rama lascia dietro di sé la sua limitatezza umana, ma stavolta, in Berandal, oltre a trascendere le mere capacità fisiche, trascende anche quelle morali. Si eleva a semidio, perché non più toccato dalle vicende umane.
Sì, si parla di vendetta. Roba da antico testamento.
La sublime vendetta che è di fatto l’unica consolazione a un non più uomo che ha smarrito la sua storia e s’è trasformato in strumento di una volontà superiore che, almeno stavolta, coincide con la propria. Un assassino di assassini.
La giustizia, o altri paroloni analoghi, non conta più.
Non è mai importata, in verità.
Infatti la saga di The Raid nasce su basi profondamente ingiuste, una spedizione punitiva, e prosegue colorata di nero.
Si tratta di killer di professione, mafiosi, omicidi che hanno tratti di serialità, tipo l’incappucciato con la mazza da baseball o la ragazza dei martelli o ancora il guerriero coi coltelli karambit (ognuno ucciso con la propria arma da Rama, in una sorta di contrappasso), che sono personaggi molto attinenti col mondo dei fumetti, specie manga, ma soprattutto, ancora una volta, con l’epica classica.
Ricordiamo infatti le armi e le armature degli eroi omerici: l’arco di Ulisse, l’armatura di Achille, poi indossata da Patroclo.
E parlando di Patroclo, che con indosso un’armatura (e un fardello) che non gli apparteneva, portò scompiglio nella fila dei troiani, consideriamo che egli fu colpito due volte dal dio Apollo in persona, prima di cadere ucciso da Ettore.
Patroclo si era sostituito all’eroe giusto per quella circostanza. Aveva usurpato il fato di un altro, ragion per cui doveva necessariamente condividerlo: la morte.
Rama invece subisce una mutazione: accetta il fato avverso e cambia la sua vita, adattandosi.
E se la guerra di Troia era una guerra sporca, altrettanto sporco è il conflitto alla base di The Raid.
Vero, è inevitabile, quando ci si trova a collaborare con un’altra cultura, come sta facendo Gareth Evans, subire un’acculturazione; lasciar contaminare la propria tradizione con quella del paese che ti ospita, ma ritengo, prove alla mano, che alla base di The Raid ci sia un’intenzionalità ben precisa, un lavoro sopraffino che notano in pochi, accecati dallo splendore dei combattimenti.