Spinto da una segnalazione dell’amico Giordano, ho approfondito la conoscenza di Emil Melmoth.
Scultore, messicano di Città del Messico.
Dove, sappiamo, il culto della Morte è qualcosa di intimo e personale, che trascende il mero rapporto divinità-credente.
La Morte è entità facente parte del tutto, una parte fondamentale e ineluttabile.
Al buio dimorano esseri che da ques’altra parte della cortina non possono e magari non vogliono esistere, sono trasfigurazioni della passione e del dolore.
Da un certo punto vista, l’idea di entrare in una galleria scura e scoprire, celate dietro drappi o dietro sapienti angoli che le svelano poco alla volta, le sculture di Melmoth mi mette un po’ d’angoscia, non tanto per l’aspetto in sé delle opere, che in un’altra lingue si definirebbero – perfettamente – con l’aggettivo morbid, quanto perché l’impressione che ne ricaverei sarebbe quella si curiosare dentro un immaginario intimo.
Nella visione di un artista che, in qualche maniera, è stato privilegiato dalla contemplazione di mostri.
Senza stare a approfondire il discorso relativo all’etimo della parola monstrum, è la medesima vista di cui hanno beneficiato almeno un altro paio di artisti già presentati in questa rubrica, le opere dei quali rammentano molto da vicino lo stile e i contenuti di Melmoth (qui e qui). E, almeno in un caso, derivano dichiaratamente da “visioni reali” sperimentate in seguito a eventi traumatici.
Poi si sa, in un mondo dove non esiste comunicazione scritta, o dove il linguaggio è secondario, quale può essere il mondo oltre la cortina, lo scambio di informazioni e di dolore deve essere lasciato unicamente ai corpi.
Come Melmoth sembra suggerire.
Noi ci rivediamo la settimana prossima.