C’è un signore che si chiama William Friedkin, classe 1935, 77 anni. Uno in più di mio padre, se fosse ancora vivo. È importante per capire.
Perché la mano in questa regia è vecchia e salda, sicura, pesa. A quasi ottanta anni puoi fare e dire quello che vuoi, nel modo che vuoi. Puoi anche beccarti un vietato ai minori di anni 17 del tuo ultimo film, da questo mondo fatto di simboli sciocchi e vuote credenze. E forse ci sta, perché il pubblico non è più abituato a vedere il pollo assurgere a simbolo fallico, di violenza fisica e psichica. Sì, una coscetta di pollo fritto, simbolo del Texas.
Parliamo del vuoto cosmico sociale, se una nazione, il Texas, è rappresentata da una coscetta di pollo. Ma non importa, perché il vuoto Friedkin vuole rappresentare, e da esso trarne opera completa.
In questo, soprattutto, oltre che per la familiarità imbarazzante col mezzo registico, differisce il Maestro, da un cazzone di regista qualunque.
Guardare Friedkin è un’avventura sicura, comoda, in cui si sa già che alla fine, comunque vadano le cose, non si viene turlupinati. È come tornare bambini e farsi la passeggiata con papà, ecco, la stessa sensazione di sicurezza.
Friedkin che è stato, per la cronaca, l’unico regista che, col suo Esorcista, mi ha fatto passare intere notti in bianco (e risparmiatevi i commenti gne gne gne a riguardo, l’Esorcista fa paura. Punto. Oltre a essere un capolavoro.)
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La padronanza del mezzo cinematografico e delle tecniche di narrazione. Che non significa, come sbraitano alcuni, seguire pedissequamente regole scritte da idioti con la scopa in culo, ma assecondarle o stravolgerle, secondo la necessità. Ci sono due personaggi, attorno a cui ruota tutta questa storia di intrighi, cinismo, sciatteria e tradimenti: Adele, la madre, bersaglio di Killer Joe. E Rex, beneficiario di una certa assicurazione, nonché amante fedifrago. Ebbene, restano due nomi, dato che ci è concesso solo intravvederli, in brevi sequenze. Due personaggi così importanti e noi manco li vediamo o li sentiamo parlare, perché Friedkin sposta l’attenzione su ciò che succede loro intorno.
Adele e Rex sono sempre i motivi dell’agire, le cause, ma non li vediamo mai.
E poi c’è il cane. Un pitbull alla catena, fuori dell’abitazione di cartone di Gina Gershon (rediviva e sfigurata dal silicone). Un cane che abbaia in continuazione, a chiunque s’avvicini, pure ai familiari. È perfetto, anche lui sfigurato, non è creatura vivente, anche se trattasi di bellissimo esemplare, ma elemento scenico, sta lì a creare tensione psicologica, coi suoi ringhi e tensione fisica, gli strattoni che dà alla catena; è elemento di disturbo che s’insinua nella mente dello spettatore e induce un’idea precisa: che la storia che si svolge sia sgradevole.
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Juno Temple è un’attrice di 23 anni, anche se nel film ne dimostra sedici, diciassette al massimo. È Dottie, nome che riecheggia la parola Dot, “punto” in inglese. Un puntino che è anche una ragazzina affetta da qualche disagio psichico, elemento centrale della narrazione, anche lei oggetto di scambio, mercimonio, valigia che il fratello vuol portare con sé nella sua fuga in Messico, manichino sessuale. Elemento di scena, fino a due minuti dalla fine, quando acquisisce volontà propria. Forse. Dato che è anche sonnambula, e quindi non si sa se stia agendo in modo inconscio, oppure no. A lei una scena di nudo. E anche qui, la classe della regia di Friedkin: ecco una scena di nudo, signori. Non accessoria, non gratuita, non compiaciuta, ma necessaria allo svolgimento della trama, alla costruzione del personaggio Killer Joe, disturbante a sufficienza, eclettica, piacevole a guardarsi perché sfumata da colori pastello e luce tenue.
Mi ricorda gli splendidi nudi mostrati da Kubrick in Eyes Wide Shut. Contesti differenti, lì villa lussuosa, qui misera moquette texana, la luce serve entrambi i maestri, e li serve bene, in un risultato che è, ancora una volta, gioia per gli occhi. Gli occhi, che dovrebbero essere il primo senso da appagare, nel gioco del cinema. Cosa che molti hanno dimenticato.
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Gina Gershon appare vecchia, gonfia, recita un personaggio lurido, funzionale. Tutti lo sono (anche il bravo Thomas Haden Church, “marito” di Gina), in un distacco necessario ed equilibrato.
Emile Hirsch ha trovato la sua dimensione d’attore in personaggini scomodi, pasticcioni, che si mettono nei guai, dipinti di vigliaccheria: gli riescono bene, i miserabili, senza tirarsi addosso la simpatia o l’aria di vittima, lo si detesta anche se viene picchiato ben bene.
E infine Matthew McConaughey, il Killer Joe (dalle braccia corte). Vestito di pelle, cappello, vizioso, capace di metterti a tuo agio e inquietarti con la lucida follia un attimo dopo.
Grande spettacolo, acuito da scene di violenza degne, giuste, mai insistite o tirate per le lunghe.
Ma alla fine, a parte lo spettacolo generale, la cosa che più mi ha colpito e che non vedevo più da tanto tempo è la dimensione del set. Il soddisfare ogni richiesta di spettacolo in un piccolo set, quale il soggiorno della famiglia di Dottie, dove si cena con pollo fritto e the freddo. Il cinema è composto di set chiusi, piccole stanze, come il palcoscenico. Molti se ne sono dimenticati, alla ricerca di un realismo talvolta non necessario. Friedkin riporta il cinema in una stanza chiusa, gli attori sul set, a interagire con il mobilio, la scenografia. Direi quasi il focolare domestico. Ma è finzione scenica, e va benissimo.
E poi il finale, che a molti, già lo so, farà storcere il naso, per i motivi più ovvi, tipo lo spiegone mancato, ma che è perfetto così. La storia in questo modo è completa. E Friedkin fa il suo cinema, non il vostro. Come fa qualunque autore. Cercate di ricordarlo.
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