In questo periodo mi sto sulle palle da solo, mi scappano i predicozzi. Dev’essere l’età, o la troppa sicurezza.
Infatti, appena è scattato il periodaccio, che attende dietro l’angolo tutti coloro che sono troppo felici, ecco che sono di nuovo precipitato in uno stato di angoscia.
Ma l’angoscia, come sappiamo, a certi elementi fa bene. Li rende reattivi, anziché abbatterli.
Io sono uno di quegli elementi.
Mi sono dato un piano d’azione:
1) cercare di far pace col cinema
Per riuscirci, c’è un unico metodo, ripartire dal Maestro: John Carpenter.
Perché lui sì, è un Maestro. E l’importanza dei suoi film si può capire solo a tratti, come per tutti i prodotti superiori.
Da vero artigiano, i film li ha lavorati, se li è sudati, anche quando si trattava di adattare e tentare di fare soldi da sceneggiature raffazzonate, messe su alla meglio, riciclate dal lavoro altrui. Cioè, me l’immagino il tipo che andava da John e gli diceva: “Tiè, questa è una sceneggiatura, non sappiamo che farcene. Fai tu.”
E lui si metteva, partiva dalla musica, componeva uno di quegli score ipnotici, che ti entravano dentro, e poi ci imbastiva una trama, seguendo due direttive fondamentali, il mestiere, perché lui il mestiere lo conosce, e il divertimento di narrare una storia: ovvero, personaggi e intreccio.
Tutte le cazzate psico-filosofiche che potevano attribuirsi o meno ai suoi lavori, quelle sono lavoro dei critici. Che ancora non ho capito che razza di alieni siano. Probabilmente del tipo di quelli presi a calci e fucilate da Roddy Piper/Nada, coi suoi fottuti occhiali da sole…
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E così, forte di queste convinzioni e dell’intenzione di voler sul serio fare pace col cinema, anche per non lasciare spazio ai nuovi recensori gne gne gne che spuntano come un’infestazione di gramigna, riparto da The Ward che, a suo tempo, massacrai.
L’ho rivisto ieri, perché, da quando scrissi quell’articolo, sono cambiate parecchie cose. Ora, vado pazzo per Amber Heard, tanto per dirne una. E ora capisco un po’ meglio, come detto poco più su, la vera essenza del cinema carpenteriano.
Qua non si parla del regista che si crede artista, delle prime donne, delle mega-produzioni, del cinema che odio, in sostanza: questo è lavoro di gruppo. Probabilmente oggi darei un braccio, per lavorare con Carpenter. Ma mi contento anche di averlo conosciuto attraverso i suoi lavori.
D’altronde, come posso non rispettare un uomo che, alla domanda sul perché non abbia composto anche la colonna sonora di The Ward risponde:
“Quite frankly, I’m just too old.”
“Francamente, sono troppo vecchio.”
Questa cosa della vecchiaia, di ammettere di essere vecchi non la si sente dire troppo spesso, vero? Anzi, si è abituati a pensare che chi fa il cinema (e la politica) si ritenga immortale e si aggrappi con ogni mezzo, lecito o illecito, alla poltrona.
John, invece, sceglie di farsi da parte piano, con stile. Con The Ward e, forse, qualcos’altro, fino a quando non si divertirà più.
Il tempo passa per tutti.
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Ricomincio da The Ward anche io, perché non sono più d’accordo con ciò che scrissi in quel pezzo. Questo per dire ciò che dovrebbe essere ovvio a voi tutti, ma che pochi in realtà hanno presente, le recensioni sono volatili. Non significano niente. Non sono determinanti e sono, di contro, sottoposte all’influenza di troppe variabili, a cominciare dall’umore del momento, quando vi sedete a guardare un film e magari vi va storta per qualche ragione che col film non c’entra nulla.
E pure i critici di professione sono esseri umani.
I film, invece, quelli restano. Durano senz’altro più di noi.
In The Ward c’è tecnica, e questo già lo notai. Ci sono dettagli preziosi, come il televisore anni ’60, la scenografia e i colori, c’è buona recitazione. C’è quella luce ocra che fa sognare.
Purtroppo, ci sono anche i punti deboli, ma non così catastrofici come li considerai a suo tempo. Uno fra tutti, il più grave, è l’aver raccontato la cattiveria di Alice Hudson nei confronti delle altre ospiti della struttura e non averla mai mostrata. Già, proprio così, mostrare e non raccontare. Ma capirete che, essendo cinema, il mostrare è la chiave, una volta tanto.
Carpenter che sublima nella scena del ballo, con questa musica. Che io continuo a trovare fantastica.
D’altra parte, The Ward è anche il film meno capito dal pubblico italiano, che imperterrito continua a cercare “spiegazione The Ward”. Una pena infinita, per costoro, poveri derelitti, che non ci arrivano proprio.
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The Ward è un horror d’impostazione classica. E questo gli è stato rimproverato come il suo peggior difetto. Non tanto classica, a mio avviso, se la gente non riesce a penetrare il mistero che si cela dietro il suo complicato intreccio.
Intreccio che in realtà è semplice, semplicissimo. Solo che manca il pubblico in grado di coglierlo.
A questo punto, la considerazione che posso fare, banale o no, ma pregna, si ricollega alla frase sulla vecchiaia. John Carpenter ha fatto le cose a modo suo. Aggiornando la tecnica, magari, per forza di cose adottando nuovi strumenti di ripresa, lasciando il formato Panavision che si portava appresso dai tempi di Dark Star. Ciò che è invariato è lo stile, quella umiltà e efficacia nel tratteggiare i protagonisti, nel dipingere i corridoi bui, nel girare le scene d’azione e di tensione. È sempre Carpenter. A cui non è giovato, forse, il make-up del mostro Alice, in fondo poco efficace. Ma il metodo e la costruzione della storia è il suo marchio.
Un vecchio che ripropone il suo modo di fare il cinema, chiaro e tranquillo, a una platea di stolti, imboccati con minestrine pronte e servite a velocità adrenalinica. E a pochi agguerriti, me compreso, che non gliel’hanno perdonato. Cosa? Il fatto di essere invecchiato.
Ma sono qui per fare ammenda, e per tirare calci, avendo finito le gomme da masticare.
Carpenter ancora insegna come imbastire una storia, come prendere cinque ragazzine e trarre fuori un film che non sia di adolescenti. Come girare con la cinepresa.
Ve la ricordate, la cinepresa?
Eccolo, il vecchio. Che ci ricorda cos’è il cinema, quello vero, che consiste nel narrare la storia, non nei riflettori e nei tappeti rossi e nelle star. E nelle recensioni infinite che producono discorsi infiniti e inutili, che si attorcigliano su se stessi, sterili.
La storia. Quella conta. Solo lei.