A voler ben guardare, Hardware è affresco completo, quasi ambientazione per un GdR. Preparata, caratterizzata, valorizzata dai dettagli che fanno tanto società allo sfascio, imbevuta di ruggine e metallo, stile cyberpunk e, nonostante tutto, arricchita dalla giovane personalità di Richard Stanley, dalle suggestioni africane, probabilmente, dalla sua giovanissima vita avventurosa.
Al centro di questo cosmo sporco e radioattivo viene posta Jill (Stacey Travis).
Volendo considerare però Hardware un caposaldo del genere horror, pur imbevuto di retrotecnologia futuristica, Jill diviene una sorta di scream queen unbound, un reginetta dell’urlo liberata. Che spezza le catene del ruolo piccolo e strumentale tipico della sua stirpe e, da oggetto, diviene soggetto che opera con volontà propria, nell’ottenimento dell’autoaffermazione di sé.
Jill è una risorsa per la specie umana. Lo sappiamo.
A quanto pare è una delle poche donne sane e in salute rimaste, se è costretta a vivere confinate nella propria abitazione.
Anticipa di anni una psicosi moderna, quella dell’hikikomori, isolandosi dal mondo esterno.
Ma Jill non è psicotica. È una creatura fragile che vive in un contesto violento, aggressivo e inquinato. Il suo isolamento è quindi necessario alla sua sopravvivenza. È una specie a rischio. Ma siamo pur sempre in territorio distopico.
Jill deve preservare se stessa, quindi, e lo fa anticipando la tendenza odierna, il lavoro a cui tutti aspirano: è un’artista su commissione, ha una connessione internet e riceve ordinazioni via etere.
Produce composizioni di metallo che risultano essere sfoghi, impressioni delle suggestioni ricavate dai mass-media e dalla musica.
Pura arte concettuale.
Ma Jill è soprattutto, speranza per un genere umano non abbastanza saggio, che ha quasi distrutto se stesso.
E ciò nonostante sembra che anche il sovrappopolamento sia un problema, nella realtà tracciata in Hardware, visto che la medesima protagonista vanta una licenza per figliare. Speranza, sogno, forse incoscienza o smania di onnipotenza, quest’idea di riprodursi, che nonostante tutto può essere inficiata dall’uomo che ama, che nel corso della sua carriera di robivecchi può aver assorbito dosi di radiazioni tali da essere diventato sterile.
Quindi Jill è l’eroina perfetta dell’horror. È sui generis. Vive in una casa piena di angoli bui, in un quartiere sporco e colorato, col quale comunica tramite un sofisticato impianto di sicurezza che controlla il proprio appartamento. Ed è desiderata da tutti gli uomini.
Dall’amico che vive al piano di sotto, che la custodisce e provvede ai suoi bisogni, dal dirimpettaio voyeur, che la oggettivizza, la riduce a feticcio di emozioni perdute, forse mai sfogate.
Dal MARK 13, come abbiamo visto.
Jill è anche veicolo della storia, non solo simbolo di un mondo morente, ma che caparbio non si arrende alla speranza semplice e magnifica di costruire una famiglia, speranza del futuro, per quanto schifoso possa essere il presente; lei è il mezzo attraverso il quale l’antagonista si risveglia;
è preda;
diviene cacciatrice;
in un percorso di maturazione della durata di una notte.
A differenza di altre eroine che l’hanno preceduta, Jill non è costretta a abbandonare la propria femminilità, in questa spinta per autodeterminarsi, non avendo alcun bisogno di un aiuto esterno o affettuoso, per sconfiggere il proprio nemico.
Se proprio devo cercare un termine di paragone, Jill è la Ripley di Alien, pur sfoggiando a differenza del personaggio di Sigourney Weaver, esteticamente agro per quanto dotato di un fascino magnetico, un’estetica dirompente, ostentata, ricercata persino, che collabora dal punto di vista cromatico con l’ambiente che la circonda; penso a quel rosso fuoco dei suoi capelli, alla sua vestaglia di seta, alla sua silhouette in termografica. Jill è una bellissima macchia di colore che però agisce con la incrollabile determinazione propria di Ripley.
È un personaggio forte, determinato, che sceglie la dimensione in cui vivere, che si ritaglia uno spazio autonomo, che non teme di essere sola. O abbandonata, di ricevere delusioni.
Lei ce la fa sempre, va avanti, sopravvive.