L’ultima pellicola della Pixar, Inside Out, è sulla bocca di tutti: “opera d’arte”, “il miglior film della Pixar”; ma anche “banale e stucchevole”, “paraculo”, ecc. Ne ho lette di ogni. Quel che penso io è che Inside Out sia un meraviglioso racconto di formazione, incentrato nella mente di una bambina piccola che sta per diventare adolescente, con un mondo ben preciso attorno a sé. E dentro di sé.
Ho sempre guardato i prodotti Pixar piacevolmente, ma mai con quel trasporto emozionale che invece mi accompagna ogni qual volta mi accingo a vedere un Miyazaki qualsiasi (ma non solo, in generale i film d’animazione orientali o europei. Mi viene in mente quel gioiello de L’illusionista). È soprattutto il disegno “semplice”, la sua essenza naturale a impressionarmi. In soldoni, la CGI mi piace, non sono affatto una che la guarda in cagnesco, però difficilmente riesce a prendere a botte il mio bagaglio emozionale. Ciò detto, i prodotti Pixar li ho sempre visti e apprezzati, fino a un certo punto. Il tanto osannato Wall-E non è riuscito a colpirmi particolarmente, nonostante sia oggettivamente di livello altissimo. Ho sempre preferito Up. Ma sapete, io ho un debole per i vecchi e la prima metà di Up mi ha ammazzato. Ed è stato proprio Up a sbalordirmi, prendendo a calci i miei punti deboli. E sono arrivata alla conclusione che, se la Pixar si fosse impegnata a osare di più, a non perdersi in sciocchezze frettolose e a mantenere una linea narrativa ben precisa, allora avremmo avuto il capolavoro in CGI.
Il capolavoro è arrivato, ed è proprio Inside Out.
La storia di Riley, costretta a trasferirsi con i suoi genitori dal Minnesota a San Francisco, è la storia di tutti noi che, a un certo punto dell’infanzia, ci siamo scontrati con quella cosa bruttissima chiamata realtà. Il primo vero trauma, che manda in cortocircuito il nostro cervello, abitato dalle emozioni primarie: gioia, tristezza, rabbia, paura e disgusto.
Cinque elementi fondamentali e imprescindibili per la nostra sopravvivenza. Non esistono emozioni sbagliate, non si possono estirpare (una scena del film lo evidenzia alla perfezione), ci dobbiamo convivere. E collaborare. Ma esiste un momento in cui ci sembra che tutto si frantumi. I nostri magnifici castelli interiori, dove ogni cosa è bellissima e perfetta, crollano. Il dramma di Riley è atroce, il suo è un cambiamento così drastico (per quanto potremmo dire: Ehi, stai andando a San Francisco, bellina, la città di Philip K. Dick e William Burroughs!) da mettere in moto il caos nel suo cervello. La bambina sempre allegra e felice non c’è più. O meglio, sta facendo i conti con la realtà. E, in tutto quel disastro emotivo, sta crescendo.
Io ho subito lo stesso shock molto prima di Riley, quando è morta mia nonna. Avevo sei anni e la chiamavamo Oma (nonna in dialetto tedesco). Lì la mia fanciullezza si è incrinata, perché ho visto per la prima volta mia mamma distrutta e non credevo potesse accadere. Non sapevo che potesse piangere disperatamente per giorni. Non capivo perché non potessi più andare a casa della Oma, che mi faceva fare un sacco di cose assurde, come tentare di staccarmi le gengive con le mani come faceva lei, che aveva la dentiera. Mio fratello se ne stava chiuso in cameretta, l’altro era a fare il militare. Mio papà faceva i turni alle acciaierie e io non capivo più niente. Poi ho iniziato a consolare gli adulti, con l’allegrezza tipica dei bambini, ma tutto quel dolore si assimila e prima o poi deve uscire. Questa consapevolezza è arrivata dopo molti anni. Io adesso ne ho trentatré e da poco so che quello è stato il mio trauma per eccellenza. Quello che mi ha cambiato la vita, imponendomi di fare i conti con la tristezza e la paura, prima. Col disgusto e la rabbia, poi.
Puoi essere arrabbiato, disgustato, spaventato. Ne hai tutto il diritto. Non si soffocano le emozioni. Si ascoltano e si esprimono. Perché esiste sempre una ragione per la quale non sei felice. E la tristezza è altrettanto importante, forse la più forte, poiché permette il contatto con l’altro. Abbandonatevi alla tristezza, se vi sta schiacciando il cuore, fatelo. Capirete l’importanza dei rapporti sani che avete attorno e solo allora potrete tornare ad essere felici. Ecco cosa ci insegna Inside Out. È senza ombra di dubbio un film per adulti, una specie di corso d’aggiornamento. La scena finale è esplicativa. Non è solo Riley ad aver fatto i conti col suo dolore. Lo hanno fatto anche i suoi genitori, condividendolo con lei. Questa è empatia. Questa è la strada giusta. E vale per tutti noi, adulti appesantiti da sovrastrutture ingombranti. Per questo ritengo che sia un film importante.
I bambini non possono comprendere un messaggio così profondo e complesso, ma vale la pena far vivere loro l’esperienza. Perché la parte centrale in cui Gioia e Tristezza devono tornare al quartier generale è strepitosa e visivamente incredibile. Sì, una CGI immensa, perfetta, un tripudio di colori e idee bizzarre potentissimo. E finalmente è tutto coerente, dall’inizio alla fine. In alcuni momenti si ride, in altri si piange. Come è giusto che sia. E per tutto il tempo si resta incollati allo schermo, incantati da cotanta bellezza visiva e di contenuti.
Perciò grazie, Pixar, hai fatto il capolavoro. Quello che stavo aspettando.
Il corto Lava, che apre il film, è dolcissimo. Non saprei come altro definirlo. L’ho visto in lingua originale e ho trovato il testo grazioso e commovente. Non so se anche la versione italiana, cantata da Malika Ayane e Giovanni Caccamo, sortisca lo stesso effetto, poiché il testo inglese gioca molto con le parole. Ma ho idea che la voce della Ayane sia imbattibile. Così, a intuito.
Vi lascio con la recensione di Erica del Bollalmanacco e con una deliziosa avventura alle poste.
E ricordatevi:
“Piangere mi aiuta a stare calma e a non essere ossessionata dal peso dei problemi della vita.”