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In Trappola al Gil’s Diner di A. Lee Martinez [recensione]

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Il problema è uno solo, mentre leggete le prime righe: quanto può sembrarvi sciocca l’idea di un vampiro chiamato Earl, che si accompagna a un lupo mannaro chiamato Duke, a bordo di un furgone, che si ferma nei pressi di un diner sperduto.
Tra l’altro, le descrizioni scarne, avare di colori, non aiutano a innamorarsi dello stile dell’autore. Non subito.
Quindi, come dicevo, dipende da quanto vi può sembrare sciocco.
Se riuscite a superare le prime pagine, e a fare la conoscenza di Loretta, cameriera bionda e panciuta del Gil’s Diner, di lì a poco vi troverete nel pieno di un attacco zombie, dal cimitero cartonato dall’altra parte della strada, sotto una luna bianca e luminosa, banchi di nebbia, uccellacci che gracchiano in pieno stile Hammer.
In Trappola al Gil’s Diner (titolo originale Gil’s All Fright Diner) di A. Lee Martinez assorbe l’atmosfera del cinema dell’orrore di cartapesta, che sa di finzione scenica, l’assorbe e la fa propria.
A quel punto, scoprire che Rockwood, il paesino in cui si svolge l’azione, è in un certo senso calamita per ogni evento sovrannaturale che si rispetti, che uno spettro di una giovane ventenne di nome Cathy fa la guardia al suddetto cimitero pieno di tombe storte e spettrali, e che persino tra i dannati può scoppiare l’amore, quello vero e palpitante, semplice come una fetta di torta di mele, senza finti sentimentalismi straccia-budella, a quel punto, dicevo, Rockwood non la lasciate più fino alla fine. E passiamo alla recensione.

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Più che Lansdale, autore a cui più volte Martinez è stato paragonato, alcune atmosfere sono tipiche di Whedon e della sua Buffy, soprattutto quell’affrontare la fine del mondo in un posto assurdo quale può essere un diner sperduto nel deserto, accompagnati da un gruppo di personaggi fuori della norma: un vampiro depresso, un licantropo che la sa lunga, un fantasma sexy armato di mazza da baseball, un terrier, fantasma pure lui, che ha rinunciato, distratto dalla vista di un coniglio, a entrare nel paradiso dei cani.
È un’atmosfera delirante, lo è di proposito, di un mondo alieno dove il sovrannaturale esiste nella generale indifferenza della razza umana che non solo lo conosce, ma ha imparato a conviverci con grande spirito di adattamento e una scrollata di spalle.

Come dicevo, Martinez non è prodigo di colori, almeno all’inizio, lo diventa quando si impegna nel descrivere le occhiute, tentacolate e striscianti mostruosità che infestano il diner.
Il racconto è l’avventura di questa coppia di amici, o così potrebbe sembrare, anche se, data la particolare natura di Earl, che dorme durante il giorno, le situazioni affrontate dai due sono nette e distinte, ripagate dai rari siparietti in cui interagiscono con sfottò e dialoghi.
Ma in generale trovo che tutti gli attori di quest’opera, protagonisti, secondari e antagonisti siano ben caratterizzati. Martinez li ama tutti, tranne forse lo Sceriffo Kopp, che resta il solo invisibile, pur essendo presente nelle fasi più importanti della narrazione.

A. Lee Martinez
A. Lee Martinez

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Quello che potrebbe indurci a pensare di avere di fronte una sorta di buddy book è annichilito dal momento in cui fanno la loro comparsa Cathy e soprattutto Tammy e Chad, due ragazzi. Tammy si fa chiamare la Signora Lilith e Chad è il suo unico e per ora fedele discepolo. Fedele perché Tammy è uno schianto ormonale, e lui farebbe di tutto pur di ottenere le sue svogliate attenzioni, cose come dissotterrare cinque cadaveri perché lei, invasata dagli spiriti degli Antichi Dei li possa trasformare in orrendi zombie verdastri.
Insomma, le cose tipiche che fanno gli adolescenti nei paesini di provincia dove il divertimento scarseggia, e l’unica alternativa alla magia nera è un misero mini-golf, carissimo.
La narrazione si alterna quindi tra capitoli descritti da Duke e Earl, e Tammy e Chad. Entrambe le coppie hanno nel mirino il Gil’s Diner, ma per motivi diversi.
La narrazione è frizzante, una volta abituatisi allo stile veloce di Martinez che, oltre ai colori, trascura anche i movimenti. Ma non è un difetto, si tratta di abituarsi e compensare con l’immaginazione.
Alla fine, la leggerezza e l’immediatezza dei dialoghi ripaga, e vi ritroverete ad amare più i personaggi di contorno, che Duke e Earl.
Perché risulta davvero complicato, alla parola fine, lasciare questo universo folle, in cui ogni posto abbandonato ha i propri fantasmi, in senso letterale, che si fermano volentieri a far due chiacchiere. Dove gli zombie sconfitti in attesa di bruciare con l’alba si fanno i complimenti a vicenda per aver meglio interpretato il ruolo di assalitore di mortali indifesi.
Vi mancherà l’insegna al neon del diner, dove si appollaiano i corvi, e quello stile dell’Hollywood dell’orrore, sotterranea, fatta di sagome e di nebbia con la macchina del ghiaccio, dove tutto è finto e piace che debba essere così.

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  • L’ho letto da poco, volevo farne un recensione… Ma sai che me ne sono dimenticato? Se non avessi letto questo articolo non ci avrei mai più pensato. Sarà l’eta, l’arterio galoppa…
    Visto lo scarso coinvolgimento dei due protagonisti della vicenda (nel senso che capitano lì per caso e non c’entrano niente con la storia) presumo che si tratti di due personaggi seriali. Anche io ho preferito le parti relative agli altri personaggi.
    Non male.

    • Non so se si tratti di serialità, non mi sono documentato. Adesso cercherò eventuali sequel con gli stessi protagonisti.

  • Più che Lansdale mi ricorda Moore – sempre in positivo – anche se per un attimo ho pensato si trattasse dello stesso autore di Anonymous Rex, ma quello – ho controllato – è Eric Garcia, il genere unito al cognome spagnolo devono avermi tratto in inganno. Storia e personaggi interessanti, voglio leggerlo. 😀

    • Di Moore non ho letto ancora nulla, quindi non posso dire. So solo che è un genere che invidio, prima o poi vorrei tanto cimentarmi anche io.

  • Ok, me l’hai venduto.
    Ho appena sborsato 8 (n)euri per l’eBook su Amazzoz.
    Se non mi piace, chiedo il rimborso.
    A te.
    Ti ho avvertito.
    Sappilo.

    <3

    • Stessa cifra che ho sborsato io… Ma non me ne sono pentito. Vale. Anche se magari in lingua originale sta un po’ meno. La copertina originale è di sicuro un capolavoro rispetto a quella italiana.