Io e la mia vicina virtuale Lucia ci siamo messi in testa di riscrivere la storia del cinema. Complice il DTT e la serie di filmacci che si sono messi in testa di trasmettere questa estate, ci proviamo davvero. Tocca a Il Vendicatore, o Il Punitore, come si sarebbe dovuto tradurre. Versione anni ’80, fricchettona e motorizzata dell’anti-eroe Marvel. Come tutti i film del periodo, anche questo è legato a ricordi particolari, scolastici, di me e i miei amici, a scuola, che ci scambiavamo albi a fumetti e aspettavamo trepidanti la messa in onda, mi ricordo, sempre sulla Rai. Paradossi mai compresi, quelli che portavano un film ultra-violento come questo a essere trasmesso senza censure in prima serata all’epoca, oggi nel primo pomeriggio. A quel tempo un evento che, ci meravigliammo, non venne pubblicizzato per niente. Col senno di poi, basta guardare al tragico adattamento italiano del titolo. Mentre nelle edicole la Star Comics proponeva il Punisher di Jim Lee, quello dell brakka-buddah (onomatopea associata alle armi automatiche), l’eroico doppiaggio italiano lo traduceva come il vendicatore, mettendogli un titolo che oggi spetta solo e soltanto al CaptEin America. Insomma, a pensarci è più di vent’anni che combinano casini. Mica dall’altro ieri.
Sia come sia, questo Punitore, quello di Dolph Lundgren (con una pistola più grande di lui) è una sorta di Jedi Oscuro in perenne meditazione in qualche cunicolo delle fogne. Cosa medita? Vendetta, pura e semplice. Verso i mafiosi che hanno ammazzato la sua famiglia e verso tutti i delinquenti che la Giustizia è incapace di punire.
Come in tutti gli adattamenti, il personaggio, in questo caso Frank Castle, è spogliato di ogni sfumatura per fornirgli una semplice direttiva elementare: uccidere. Non mangia, non si lava (immaginate che odore debba esserci, tra fogna e sudiciume) e dispone di una quantità incredibile e inesauribile di armi e munizioni. In più, dei coltelli personalizzati, con pomo a forma di teschio. Da vero duro.
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Lo so, magari voi siete quelli dei film posteriori, che considerano questa una specie di fetecchia. Non vi posso dare torto. Trama sgangherata, set commerciali, quando va bene, recitazione sciatta al minimo sindacale, soprattutto Louis Gossett Jr., che ha vinto l’Oscar, l’ha piazzato sul comò e sta lì a guardarselo tutto soddisfatto. Qui se ne va in giro bolso, fallito, perché da anni cerca il suo amico Frank che nel frattempo scorazza liberamente in città facendo fuori tutti i criminali. Ne ha ammazzati 125. E lui, Gossett, s’è dimenticato di guardare nelle fogne. Ok, sono d’accordo. Ma come non amare Lady Tanaka, capo della Triade, con la sua faccia che è una maschera, accompagnata dal suo braccio destro, la ballerina con lame nascoste ovunque, che ti abbraccia in letali danze della morte?
Una città in mano ai mafiosi italiani. Nel caso non si fosse capito, che sono italiani, al Capo dei Capi è stato messo il nome di Gianni Franco, col volto del noto caratterista Jeroen Krabbé (d’accordo, il nome non vi dice nulla, ma lo avete visto dovunque). Come a dire, c’è tutta Little Italy e anche di più.
Lady Tanaka, spietata, arriva e si prende tutto il giro del racket in un solo giorno.
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Personaggio epico, l’attrice Kim Miyori, che ti guarda e sembra voglia tagliarti la gola, uccide nei modi più pittoreschi e diabolici. Rapisce tutti i figli dei boss e si fa pagare il riscatto. Non contenta ne avvelena quattro intenti a festeggiare in un ristorante dove tutti, tranne quei quattro, sono alle sue dipendenze, pure la vecchietta col cappello di lana che nella borsa nasconde la sua stronzissima 44 magnum. Tanaka ha fatto servire loro dello champagne avvelenato, così può starsene a guardarli crepare mentre con la punta umida del suo dito strofina il bordo del calice di cristallo per produrre quel suono distorto. Ma uno di quelli non l’ha bevuto, così gradisce un boccone di pistola in bocca… e le sue cervella finiscono per tappezzare il locale.
Ma a lei a al suo volto di cera ci torniamo tra poco.
Dolph Lundgren ha lo sporco addosso, su tutto il corpo. Se ne sta nudo, non una bella vista, in effetti, a coltivare disciplina zen e piattole. Con due occhiaie mostruose sul viso, tracciate con l’aratro. E in questa caratterizzazione a metà tra lo scazzo impersonale e l’ossessione, il suo Punisher non è affatto male. Forse non un esempio virtuoso di recitazione, ma di sicuro fisicità solida che si sente tutta nei calcioni e nei pugni che dispensa ai suoi nemici. Una figura caprina la fa quando sventaglia un migliaio di colpi contro le slot-machine di una sala da gioco della Triade, ma lo sapete, quelle scene bang bang, bum bum, servivano per giustificare il budget.
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Note di merito, al di là della storia che, come ho detto, non c’è, sono due: i combattimenti e il sadismo di Lady Tanaka.
Dolph Lundgren curò le linee di dialogo di Castle, e si sente, ma soprattutto, gli fu lasciata carta bianca nella gestione delle coregrafie di lotta, in gran parte improvvisate insieme agli altri attori. Il risultato è notevole, trattasi di combattimenti rudi, veloci e azzeccati. In certi momenti brutali, come nello scontro tra la sgherra di Lady Tanaka e lo stesso Dolph, con lui che cerca di spezzarle l’osso del collo e lei che dimena mani e piedi tagliuzzandolo a più non posso. Momento trash da antologia quando Frank Castle e Gianni Franco, penetrati nel dominio privato della giapponese, sterminano tutti i suoi guerrieri armati di spada con l’ausilio di armi automatiche, gioco al massacro e pura fase estetica, non foss’altro per il contrasto cromatico tra il candido dei kimono dei samurai e il loro sangue. Rosso che poi esplode quando entrano in funzione le luci d’emergenza.
E poi, c’è lei, la Lady, un cattivo mica da ridere… la cosa più gentile che ha fatto è stata preparare una lauta cena al fratello gemello prima di ammazzarlo. E… come dimenticare la sua risata distorta mentre aspetta che Franco, cui nel frattempo ha fatto mettere la pistola in bocca, si faccia saltare la testa?
Ma contro aveva Dolph Lundgren, che non sarà Schwarzy, infatti si sporca e si ferisce molto più di lui, ma che le mani le sapeva menare come pochi altri.
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