Guardo agli esseri umani e li vedo per ciò che sono: una specie giovane e ambiziosa, appesantita da un po’ di zavorra.
Se è vero, come sosteneva Carl Sagan, che siamo cercatori nell’indole, è altrettanto vero che la maggior parte di noi ha smesso di cercare, di guardare l’orizzonte, e oltre. Un po’ come le oche in batteria, nutrite a forza per ricavarne paté di fegato.
Credo che il Sopravvissuto sia una storia che narra di questa estrema caparbietà, di un singolo essere umano, soprattutto, Mark Watney (interpretato da Matt Damon) di impiegare tutta la sua conoscenza, tutto il suo potere di piegare l’ambiente alle sue esigenze per sopravvivere su Marte.
Noi sopravviviamo.
In quanto specie.
Questa è la nostra dote.
Il nostro dono.
La nostra caratteristica intrinseca.
Unita a quella spinta, un richiamo quasi, che ci impone di muoverci, evolverci, di non restare nello stesso luogo, di continuare ad avanzare.
Se si crede nella spinta evolutiva quale elemento del nostro DNA, ed è difficile sostenere altrimenti, visto che sono sessantamila anni che ci muoviamo, per istinto e poi per ragione, in questa direzione, il sistema solare e Marte in particolare saranno il nostro prossimo gradino. Probabilmente il solo, fra i tanti che la nostra specie è destinata a percorrere, che ci è consentito osservare da vicino. Per esigenze di tempo relativo, ovviamente.
La conoscenza scientifica attuale ci consente di sopravvivere coltivando patate su Marte? Da più parti, comprese quelle ufficiali, si sussurra di sì. È possibile.
E che la più grande inesattezza del film di Ridley Scott, e del libro di Andy Weir, è la tempesta marziana che dà origine a tutto.
L’atmosfera di Marte è talmente rarefatta (cosa poi confermata nello stesso film durante le fasi finali) che una tempesta di tale violenza non sarebbe possibile. Al più, la più intensa tempesta tropicale terrestre sarebbe simile, su Marte, a una brezza leggera tra i capelli.
Per la stessa ragione, potremmo comunicare l’un l’altro solo urlando, perché i suoni avrebbero difficoltà a propagarsi.
Ma, ehi, questo è intrattenimento. È un discorso che abbiamo già fatto ma che non stanca mai ripetere. La narrazione non può assecondare sempre la noiosa realtà in ogni aspetto, altrimenti cessa di essere narrazione e diventa vita. Ci mettiamo 80-100 anni per sprecarla, la vita, e di questo arco di tempo, gli eventi interessanti che possano intrattenere platee di spettatori in tutto il mondo si sommano in poco più di due ore. Se siamo fortunati.
The Martian – Il Sopravvissuto è, credo, il film della maturità di Ridley Scott. Della vecchiaia. Di chi è padrone del set da decenni, e ne ha viste e sentite di tutte. E se ne frega.
Ha un taglio strano, che rinuncia a far leva, come sarebbe stato lecito aspettarsi, sull’emotività umana. C’è, ma in quantità naturali, non si passa la vita a frignare e lamentarsi, in The Martian, si agisce. L’astronauta disperso non trascorre i suoi “soli” su Marte disperandosi, ma si muove unicamente sulla base di precisi calcoli matematici. Fatto l’inventario, capito di avere, al più, quattrocento giorni di vita, nel migliore dei casi, si industria per allungare quei giorni tanto quanto occorrerà alla Nasa per organizzare una nuova missione sul pianeta rosso.
Milioni di chilometri da casa: inutile lagnarsi, tanto non ci sente nessuno. E noi, dispersi, non sentiamo l’insopportabile ciarlare che ci siamo lasciati alle spalle, sul pianeta azzurro.
Questo taglio ottimistico si evince soprattutto dall’impiego di una colonna sonora non invadente, e soprattutto affatto lirica. Anzi, l’utilizzo massiccio di disco music anni Settanta di fatto sottrae pathos a quelle che dovrebbero essere le sequenze maggiormente tensive, lasciando libero lo spettatore di seguire con precisione certosina il sistema di sopravvivenza messo a punto da Watney per cavarsela. E sì, anche di trattenere il fiato durante la sequenza di recupero.
Nessuna metafora ardita o esistenzialista, nessun uomo ai confini dell’animo umano, che lo scopre malvagio e indegno di sopravvivere, o che necessita ancora di altra evoluzione per emergere dalla merda cosmica.
No, qui l’uomo è forte e ambizioso. E vaffanculo i frignoni.
Impossibile. Irrealistico. Il solito spettacolo hollywoodiano.
A essere onesti, non mi importa, dicano pure ciò che vogliono.
L’idea di colonizzare Marte, soprattutto ignorando quel vespaio di voci generate dalla zavorra dei primi righi di questo articolo, mi esalta.
L’umanità non può smettere di avanzare per raccattare i cocci di coloro che hanno rinunciato a esplorare e che preferiscono mandare a memoria i testi di Aristotele e a morte coloro che osano contraddirli, e che finiscono poi per riscoprire interi continenti e opportunità mai finora immaginate. Che portano vantaggi anche ai primi, ciechi e immeritevoli.
È di qualche giorno addietro la notizia che la NASA ha confermato ciò che già si sospettava da anni: c’è acqua su Marte.
Un altro punto a favore della probabile, possibile e futura colonizzazione del pianeta rosso.
Spero di riuscire a vederla.
Anche perché già so che, quando avverrà, diranno che è tutto falso, che non c’è nessuno a coltivare patate su Marte, che ci stanno prendendo in giro. Che la NASA non è nient’altro che Hollywood. Cinema e finzione. Come fu per l’Apollo 11.
Nel frattempo, Scott (tramite Weir) e Carl Sagan ci sussurrano che lo spazio è nient’altro che l’ennesimo oceano da solcare, e da piegare alle nostre esigenze, per ritagliare anche in esso la nostra affermazione in quanto specie intelligente.
For all its material advantages, the sedentary life has left us edgy, unfulfilled. Even after 400 generations in villages and cities, we haven’t forgotten. The open road still softly calls, like a nearly forgotten song of childhood. We invest far-off places with a certain romance. This appeal, I suspect, has been meticulously crafted by natural selection as an essential element in our survival. Long summers, mild winters, rich harvests, plentiful game—none of them lasts forever. It is beyond our powers to predict the future. Catastrophic events have a way of sneaking up on us, of catching us unaware. Your own life, or your band’s, or even your species’ might be owed to a restless few—drawn, by a craving they can hardly articulate or understand, to undiscovered lands and new worlds.
Herman Melville, in Moby Dick, spoke for wanderers in all epochs and meridians: “I am tormented with an everlasting itch for things remote. I love to sail forbidden seas…”
Maybe it’s a little early. Maybe the time is not quite yet. But those other worlds— promising untold opportunities—beckon.
Silently, they orbit the Sun, waiting. (Carl Sagan)
A causa di tutti i suoi vantaggi materiali, la vita sedentaria ci ha lasciato irritabilii, insoddisfatti. Anche dopo 400 generazioni trascorse nei villaggi e nelle città, non abbiamo dimenticato. La strada immensa ancora ci invita dolcemente, come un canto dell’infanzia quasi dimenticato. Guardiamo a luoghi lontani con un certo romanticismo. Questo richiamo verso l’ignoto, ho il sospetto, è stato meticolosamente modellato dalla selezione naturale, come un elemento essenziale per la nostra sopravvivenza. Estati lunghe, inverni miti, ricchi raccolti, selvaggina in abbondanza, nessuno di loro dura per sempre. È al di là dei nostri poteri predire il futuro. Eventi catastrofici ci raggiungono furtivi, inattesi, ci sorprendono, ci colgono inconsapevoli. La vostra vita, o quella del vostro gruppo, o anche la vostra intera specie potrebbero essere dovuti a un inquieto e sottile desiderio che difficilmente possiamo intuire, di scoprire terre sconosciute e nuovi mondi.
Herman Melville, in Moby Dick, ha parlato per gli esploratori di tutte le epoche e latitudini: “Io sono tormentato da un’eterna pulsione verso ciò che è lontano. Amo navigare su oceani proibiti.”
Forse è un po ‘presto. Forse non è ancora trascorso abbastanza tempo. Ma quegli altri mondi, che ci promettono indicibili opportunità, ci chiamano.
Silenziosamente, orbitano attorno al Sole, in attesa.