Cinema

Il problema dei franchise: Hellraiser

Già il fatto che Hellraiser sia finito su Hulu, ovvero su Disney+, chiude la questione dello stanco remake di David Bruckner. Non poteva funzionare, non con queste premesse. Non conoscendo Hellbound Heart.
Ne apre un’altra, legittima, di questione: se questo modo di intendere il cinema e l’intrattenimento sia adatto a creare belle storie.
Di questo Hellraiser se ne è parlato stupidamente – e soprattutto – per Jamie Clayton, alla quale è toccato il ruolo di Pinhead. Coi fan proni, intenti a effettuare attente e isteriche esegesi sui testi originali per valutare l’opportunità che il ruolo del portaspilli umanoide fosse interpretato da una donna trans. Non potendosi in effetti appigliare a nulla, perché anche nell’intenzione di Barker stesso Pinhead, come tutti i cenobiti, va oltre le noiose distinzioni di sesso, è rimasto un film il cui interesse generale è andato a spegnersi prima ancora di essere consumato.

È il dramma – comune anche agli adattamenti dalle opere di King – dell’horror che vorrebbe essere un proto-blockbuster. Peggio ancora, come in questo caso, se è legato a un franchise.
Sono cose che non vanno d’accordo. E non perché sia convinto che l’horror non abbia i mezzi per diventare un successo di pubblico, tutt’altro, ma perché l’industria cinematografica, sempre più impresa economica, non può permettersi qualcosa che scandalizzi sul serio e darla in pasto al pubblico generalista che va in sala – o accende la TV – senza nemmeno sapere cosa sia andato a guardare.

Sono testimone oculare di questa abitudine: eravamo a guardare Midsommar e un gruppo di spettatori – i più rumorosi, ovviamente – era lì per passare il tempo. Ari Aster nemmeno sapevano chi fosse.
Già mi sembra surreale che Hellraiser sia finito in streaming, magari avviato dal papà davanti a tutta la famigliola sul divano, cane in primis. Ma si sapeva già che sarebbe stata quella domestica, la sua destinazione.
Ancor più surreale considerando che Hellraiser e la sua fonte, The Hellbound Heart, sono prodotti di reazione a un momentaccio della vita privata di Clive Barker, nati con la volontà, poi incarnata dai Cenobiti, di mettere in scena Bene e Male indistinguibili l’uno dall’altro e connessi dalla sessualità.
Proprio un argomento con cui fare bei dollaroni, non c’è che dire. Ma tant’è… la narrazione appartiene a chi ha i danari ed è convinto di saper fare le cose. Tutti gli altri tirano a campare.

E che questo Hellraiser sia uno scandalo un tanto al chilo preconfezionato si capisce nei primissimi minuti, quando il meccanismo di Lemarchand finisce nelle mani del giovane prostituto a una festa sadomaso tra ricchi e potenti: dove le orge (e ricordiamo che il sesso dovrebbe essere elemento connettivo e protagonista quasi assoluto) costituiscono un sottofondo sfocato. il film è la svogliata riproposizione delle configurazioni – sei – del Lemarchand, e si regge solo sulla curiosità estetica per l’annunciata reincarnazione dei Cenobiti, Jamie Clayton e il suo Pinhead in testa.
Che, per la cronaca, sono la parte più riuscita di questo estenuante film di due ore. Riuscita solo in parte perché i Cenobiti restano quasi sempre nell’ombra, afflitti dal pudore, o dalla preventiva censura di chi certe cose non solo non può mostrarle, ma non ha mai nemmeno voluto.
L’unica cosa che si voleva fare, con questo Hellraiser, era defibrillare l’ennesimo franchise dall’abisso degli anni Ottanta, per ricavarne altri dollaroni. E magari vendere i pupazzetti dei Cenobiti, collezionabili nei cestini di qualche fast-food. A pensarci, un orrore cento volte più terribile.

Bruckner ha girato alcuni tra i titoli che più ho apprezzato nel corso degli ultimi anni: The Signal, Southbound, Il Rituale. Davvero un peccato. Ma non è nemmeno colpa sua.

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