Come sapete, da qualche tempo mi ritengo uno scribacchino soddisfatto (ovvove!). Ma la seguente non vuole essere una discussione sulla scrittura, vi prego. Non ho la forza psichica né fisica per affrontarne un’altra. Anche perché sono persuaso della loro inutilità intrinseca. Si discute, animatamente, e ognuno resta sulle proprie posizioni, difese come un tempo si difendeva la Parola. Tempo buttato.
Il presente post nasce da una microriflessione di questa mattina, cui è seguito un altrettanto minuscolo scambio di battute col mio collega Alex.
La mia rilfessione è stata la seguente, data in pasto a faccialibro:
“E comunque, poche storie, voi scrittori non amate i vostri personaggi.”
Al che, ha risposto Alex:
“Mah, i personaggi devono essere funzionali alla storia, non è che devo uscirci a cena”
La conseguenza è che siamo in disaccordo totale. E quindi, quando ci incontreremo di persona faremo a botte. Nel frattempo ci limiteremo a battibeccare in questo post, se volete.
Me lo sono posto da sempre, questo interrogativo, ovvero quanto “affetto”, diciamo così, un autore ponga nei propri personaggi, e perché sceglie di dar loro un determinato aspetto, piuttosto che un altro, un determinato mestiere e un determinato carattere, o caratteraccio.
Il quesito è diventato particolarmente pressante dal momento in cui ho partecipato al Sick Building Syndrome. In sostanza, lì ho dovuto gestire “manie” (e con “manie” intendo il modo di caratterizzare i personaggi) di 22 autori diversi. A parte lo spaesamento iniziale, ho avuto la strada spianata grazie a Ferruccio che ha tratteggiato Hans, il personaggio che poi ha chiuso la storia, con poche pennellate, pur se pesanti connotazioni fisiche, nella fattispecie vere e proprie menomazioni. Questo mi ha permesso di immaginare il carattere di Hans come ho voluto, accennando infine a una sua passione per la musica vintage, gli Ink Spots, dettaglio creato all’uopo.
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Tornando ai personaggi in generale, e parafrasando Alex: io coi miei personaggi ci esco a cena.
E no, non è folle come può sembrare. Ogni personaggio deve essere differente dagli altri, il modo in cui pensa, si esprime, ciò che desidera e anche perché lo desidera, ma, soprattutto, deve essere vivo.
Il personaggio Zooey, e mi riferisco a lei perché bene o male quasi tutti voi lettori di questo blog lo conoscete o lo avete sentito nominare: crearla è stato più facile. Non l’ho dovuta inventare da zero, il suo aspetto fisico, le sue movenze, il suo atteggiamento l’ho evinto da un’osservazione della sua controparte nel mondo reale. E tuttavia non avrei mai potuto conoscerla veramente. Ed è lì che sono intervenuto, “uscendoci a cena”, ovvero immaginandola “in situazione” e creando, prima nella testa e poi su carta, il suo carattere, ciò che la rende viva e vitale. Stesso discorso, che ci crediate o meno, vale per tutti gli altri personaggi di GfH e di qualsiasi libro o racconto abbia mai scritto, mutando la durata delle frequentazioni a seconda dell’importanza e della durata del ruolo rivestito nella storia che andranno a interpretare.
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Con Erica, diciamo così, ho immaginato una convivenza, pescando dalla vita reale. Con Shaun sono uscito “davvero” in barca a pescare. Con tutti loro ho “parlato”, “discusso”, “fatto osservazioni”, ragionato sulla fine del mondo. Alla fine, ho scritto solo una piccolissima parte di quelle “riflessioni”, la parte funzionale alla storia. E ciò vale non solo quando scrivo in prima persona, caratteristica che rende più facile e spontanea l’immedesimazione, ma sempre, qualunque modo di narrare io scelga. Se il protagonista lavora in una friggitoria, ad esempio, questo non deve limitarsi a essere dettaglio funzionale alla storia, nel senso che non deve limitarsi a saper friggere le patate; lì, sul quel pavimento grasso, in quell’aria satura di essenze grevi, il personaggio deve esistere e spiegarmi come e perché le cose stanno così.
Facciamo un altro esempio: la figura del sacerdote. Difficile. L’impressione che ne ricavo io, leggendo di personaggi sacerdoti, è che siano dei cliché, ovvero il sacerdote così come si pensa che sia. Non un sacerdote vissuto dall’autore, ma l’immagine comune del sacerdote, descritta anche con una certa antipatia verso quella figura in generale e il ruolo che ricopre. Lo scetticismo e l’insofferenza dell’autore si sentono tutti. Cosa legittima, certo, ma non se il personaggio sacerdote risulta essere artefatto, finto, degno di una pessima soap opera, e ciò nonostante gli si affida un ruolo chiave. E come quel sacerdote, di personaggi costruiti a uso e consumo ne ho incontrati centinaia.
Il guaio è che, da lettore, si sente questa artificiosità, il fatto che non sono “vivi”, ma sono, più che altro, concetti. Quegli amati/odiati tipi universali, dei quali stentiamo a liberarci, perché in quanto autori ci danno sicurezza, in quanto lettori li riconosciamo subito, e ci consentono di tenere la storia sotto controllo. C’è a chi piace. A me no.
Però, io credo che la semplice funzionalità non partecipi a rendere i personaggi memorabili. Solo la “vita” ci riesce. E siamo noi in quanto autori a dovergliela dare. Voi che ne pensate?
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