Era figlio dei tempi in cui il mondo viveva sotto il dominio dell’oro nero, e i deserti brillavano per le fiamme delle gigantesche torri che estrevano il petrolio.
Ora tutto è distrutto, scomparso. Come e perché non lo ricorda più nessuno; ma è certo che un immane conflitto annientò due grandi potenze. Senza il petrolio l’uomo tornò alle sue origini primitive, e tutte le sue macchine favolose andarono in rovina. (soundtrack)
Queste le parole con cui, nel secondo capitolo della saga di Mad Max, viene introdotta l’apocalisse solo preannunciata dal primo.
Chi non ci vede profonde analogie con la situazione attuale, vuol dire che non ha visto i film.
Il primo suggerisce il disfacimento della società, lo sublima e lo incarna nella distruzione del nucleo familiare, ultimo baluardo di un mondo decadente in cui la legge e il crimine usano gli stessi metodi.
Il secondo salta il conflitto nucleare, e ci mostra un mondo sì devastato, ma in cui la distruzione principale è propria dell’individuo.
L’uomo non è più essere sociale, ma animale. Status quo che può apparire banale, ma non se lo si analizza nel suo significato più profondo.
Facile fermarsi a considerare la violenza, quasi parossistica, che caratterizza il secondo capitolo (che tuttavia non sfiora, per fortuna, i ritmi fumettistici del capitolo successivo, il terzo), ma non è nella violenza che l’uomo viene spogliato della sua natura, al contrario essa gli è propria, quanto nella mancanza di interazione sociale. L’uomo, di cui Max è esempio, è incapace di costruire una nuova società, una nuova famiglia. Teme i legami perché teme il futuro, un futuro in cui, lo ricordiamo, il cibo è la scatoletta per i cani, in cui non si riesce a costruire nulla di nuovo per sé e per gli altri, e dove al contrario si utilizzano, fino all’esaurimento, le vestigia della gloria passata, le macchine. E i ricordi… i ricordi servono solo a suscitare malinconia e disperazione, più che speranza.
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[qualche immagine a seguire può costituire spoiler]
Il terzo capitolo è un fumetto con lampi di genio, mi riferisco ai sopravvissuti nell’oasi del deserto, dimentichi del mondo di prima, e bisognosi di ricostruirsi una propria mitologia che spieghi un presente inaccessibile e un futuro lontanissimo, la terra del domani-domani. Il tutto visto attraverso vecchie e sbiadite fotografie di oggetti e costruzioni meravigliose, ma mai vedute.
Di Mad Max 4: Fury Road, se ne parla almeno dal 2010 e sembra che noi non riusciremo a vederlo prima del 2014. Trapelano indiscrezioni sugli attori, Tom Hardy (Mad Max), Charlize Theron (Imperator Furiosa), sui set e sui costumi.
Il tutto per la mano di George Miller. Stesso regista, stessa indole. Dovrebbe essere una certezza. Dovrebbe.
Secondo le sue parole:
“Mad Max is caught up with a group of people fleeing across the Wasteland in a War Rig driven by the Imperator Furiosa. This movie is an account of the Road War which follows. It is based on the Word Burgers of the History Men and eyewitness accounts of those who survived.”
E questa, uscita lo scorso dicembre, dovrebbe essere (anche qui, il condizionale è d’obbligo), la prima immagine ufficiale del nuovo Max:
E poi, i veicoli:
Per quello che sembra, l’ispirazione è figlia molto più del terzo episodio che degli altri. Uno stile ricercato che sa più di una New York anni ’30 e di George Gershwin, pur sotto un fallout nucleare, che di un probabile (e perciò stesso immaginabile) futuro apocalittico.
Ritengo, ma parlo naturalmente col beneficio del dubbio, che si sia privilegiato, ancora una volta, l’aspetto fumettistico, in luogo della sottile e implicita disperazione del primo capitolo e della palese e disperata, che si risolve nell’inganno di un’autocisterna che trasporta terra, violenza del successivo.
Secondo una ben precisa teoria, secondo la quale la narrazione esorcizza le paure attuali, scegliendo i temi e le sfumature di volta in volta necessarie. E quindi se il Mad Max figura tragica era figlio del benessere degli anni ’80, pur sotto l’ombra della minaccia nucleare delle superpotenze a cui si accenna nell’introduzione, nel 2013, in cui la crisi del petrolio s’avvera e forse un futuro di malessere economico e sociale, così simile a quello delle strade percorse in lungo e in largo dal Nightrider, è sempre più vicino, l’apocalisse diventa ambientazione aliena, ben riconoscibile nei tratti caratteristici, il deserto, gli stracci indossati dai protagonisti, ma altrettanto riconoscibile nella finzione della messinscena.
Basta confrontare Lord Humungus
Con quello che, visti gli abiti, rappresenta uno dei cattivi, se non il cattivo (si ignora il nome del personaggio, scusate)
Facile percepire la differenza tra i due, col secondo che appare sempre più opera di fantasia, quasi fantasy, rispetto al terreno Humungus, che vestiva la maschera da Hockey in stile Jason di Venerdì 13, e rappresentava, con la sua eloquenza contrapposta alla ferocia del suo aspetto, quasi una distorsione allusiva della società contemporanea al film. La seconda figura è solo frutto di fantasia.
In sostanza, nessuna pretesa distopica, quanto rappresentazione di un universo fantastico, devastato, ma ben distinto (e separato) dal nostro. Più lontano è, meglio è.
Questa è l’idea, insieme alle emozioni che ancora questa trilogia riesce a suscitare in me, che l’adoro.
Ovviamente spero di smentire quest’articolo al più presto.
Nel frattempo, chiudo lasciandovi qualche immagine video dalla produzione. Incrociamo le dita.
Fonte: Collider
Link Utili:
le recensioni di Mad Max (1979), Mad Max 2 (1981) e Mad Max oltre la Sfera del Tuono (1985)