Antologia del Cinema

Il Grande Sonno (1946)

Perdonate l’azzardo, ma inizio da dove finisce un certo Red: spero.
Spero di riuscire a serbare intatta la memoria di questo film, soprattutto nei minuti che trascorreranno per scrivere quest’articolo. Spero di non dimenticare i giochi d’ombre e la musica e la perfezione di una trama intricatissima, compiuta a incastro; temi sordidi, sporchi, rivoluzionari, cose delle quali la Legge vietava di parlare. Pornografia, ricatti, droga, promiscuità e violenza. Il noir, quello dei vicoli bui e piovosi, nebbiosi, dell’apparente innocenza dietro cui si cela l’abisso, della morale spiccia, dei sentimenti forti che travalicano cose considerate sacre, quella stessa legge, tanto per cominciare. E la giustizia, ché la coscienza la si mette a posto in altro modo, come fa più comodo e appare corretto.
Il noir che nel ’46, a differenza dei film sulla guerra, è considerato immortale e appetibile dal punto di vista commerciale. Non siamo ancora negli anni Cinquanta. Ma il mondo ha già visto i suoi lampi nucleari, e centinaia di migliaia di voci che si sono spente urlando. È bene ricordarlo, per capire.
Lo spettacolo deve andare avanti, dopotutto si è a Hollywood, e gli States si avviano a dominare i cinquant’anni successivi. A loro la leadership mondiale; tocca esportare miti, perché l’America sia degnamente rappresentata. C’era una leggenda vivente, già allora, che rispondeva al nome di Humphrey Bogart. Non era la voce, il suo punto di forza, per quanto caratteristica, ma faceva bene alla visione d’insieme: impermeabile indosso, bavero alzato, cappello a tesa larga, faccia di quello sempre pronto a fare a pugni. E lo faceva, menava le mani. E il pubblico godeva, per questo. Insieme a lui Lauren Bacall, a lei bastava essere. I critici dell’epoca, come di tutte le epoche, sostenevano che Lauren fosse bella sì, ma non sapesse recitare. Quando riesci ad accendere una sigaretta come fa in To Have and Have Not, tutto il resto passa in secondo piano. Sostenuta dalla perfezione estetica, dalla bravura (perché essa c’è, c’era) e dalla sua husky voice. Quella voce roca, bassa, suadente, con la quale pronunciava battute studiate per far diventare le ginocchia molli.
La nostalgia dell’impossibile, di un silver screen e di un genere, il noir, ch’io ho potuto conoscere solo in ritardo di sessant’anni. Gli inconvenienti e insieme i piaceri dello scorrere del tempo. Lo amo, il noir.
Disciplina e focalizzazione sulla storia. Temi brutali, finale che lo è ancora di più. Non un secondo delle circa due ore di durata, concesso alle deviazioni artistiche, quel che oggi perdoniamo ai registi definendolo, quasi a giustificazione, stile, o personalità. La storia, l’azione, gli attori. Li si deve amare subito, dalla prima inquadratura. Si deve soffrire insieme. Cinema.

***

Bogey è Philip Marlowe, detective privato chiamato a indagare dal Generale Sternwood (Charles Waldron) su una sporca storia di debiti e ricatti che coinvolge sua figlia minore, Carmen (Martha Vickers), ad opera di un rivenditore di libri rari, Arthur Geiger. Lauren Bacall è Vivian, altra figlia del Generale, costei sospetta invece che il reale motivo per cui il padre abbia assoldato l’investigatore sia indagare sulla scomparsa di un suo caro amico, Sean Regan, di cui si sono perse le tracce da circa un mese.
Questa l’introduzione alla complicata vicenda de Il Grande Sonno, diretto da Howard Hawks, tratto dall’omonimo romanzo di Raymond Chandler, del 1939.
Quello di Hawks è un nome poco noto, non altisonante, come richiede lo Star System, e ricordato solo dagli appassionati e intenditori di Cinema. Questo anche a causa della severità con cui tagliò la propria personalità dal film dedicandosi solo alla storia, fin dalle inquadrature. Eliminò qualsiasi movimento superfluo delle cineprese. Non una scena una che esuli dal contesto, spesso montate con stacchi brutali. Il risultato è una focalizzazione sistematica, e ritmica al tempo stesso, che ha del prodigioso. Il film non conosce pause e scorre rapido, nonostante la complessità e le infinite variabili contenute dalla trama che, ricordiamo, si ottenne fondendo ben due novelle dello stesso Chandler. Storia che fu percepita come labirintica, oltre che trattante temi scabrosi, fin dall’esordio in sala. C’è una cosa, però, che tutti quanti hanno riconosciuto fin dall’inizio: non importa. Poiché il grado di immedesimazione che la regia consente, e il lavoro degli attori supplisce alla difficoltà con cui si fa seguire. Il film si lascia guardare, sentire, assaporare. Si fa godere, insomma. Dal punto di vista di Hawks, un riconoscimento al suo eccellente operato.

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Ma, a ben vedere, e qui sta il segreto che solo una disciplina e un controllo totale della materia trattata riescono a dare, Hawks lascia la sua impronta pur avendo sacrificato le proprie velleità. Forse è un piano ben congegnato, forse è proprio questo, il suo stile, ed egli ce l’ha mostrato nella sua essenza, priva di fronzoli. Assistiamo a spettacolari inquadrature di ombre, quella di Bogart e della Bacall che si accendono una sigaretta, ombre di assassini che sovrastano vittime, a set immensi popolati da decine di comparse, secondo quelle riprese corali così difficili e così preziose, già a partire dalla messa a fuoco, senza considerare lo sforzo finanziario e la responsabilità che da tali ambiziose scene scaturiva. Mi riferisco in particolare a quella del Casino. Il set è immenso, diviso in tre ambienti: la sala d’ingresso, con Bogart che lascia l’impermeabile all’attendente, e due porte aperte, su altrettanti saloni; il primo arredato con tavoli occupati da avventori e un bancone di un bar, pieno di clienti, cameriere che girano per raccogliere le ordinazioni e persone che bevono e chiacchierano: la seconda con uno scorcio su comodi divanetti e gente che si intrattiene ascoltando motivi suonati al pianoforte e cantati da Lauren Bacall. E tutto questo, forse una sessantina e più di attori che si muovono, ridono, fumano, “frequentano il locale”, si coglie con una sola inquadratura. Questa è maestria.
Poco altro da aggiungere, se non accennare ai temi scomodi trattati dalla trama. Una serie di ricatti per debiti di gioco, attività alla quale l’angelo Vivian si concede; ella, come tutte le donne del noir, è dotata di personalità enigmatica quanto carismatica, fascino incarnato, aspetto innocente e altero, che cela una doppia vita di vizio e squallore, segreti sporchi, problemi che, nell’arco della proiezione, dovranno essere risolti, in un modo o nell’altro.

***

La pornografia è il mercato nero col quale il signor Geiger intrattiene l’aristocrazia viziosa hollywoodiana, in un realismo crudo, per l’epoca, che non ammetteva smancerie o strizzatine d’occhio a quelle colline, quelle con la scritta, alle quali tutto il cinema doveva la propria esistenza e ricchezza: si sfornavano deità contemporanee da lassù.
Geiger che s’intuisce coltivare una relazione omosessuale con un altro dei protagonisti. Entrambi i temi, pornografia e omosessualità, appartengono all’originale romanzo di Chandler e sono appena sussurrati, perché erano proibiti dalla legge. Siamo in un altro mondo, un’altra realtà. Ma ciò nonostante, percepiamo come netta la rottura che questo film doveva rappresentare. Il cinismo dei protagonisti, l’oscurità che pure si cela dietro il sorriso di Vivian. La morale al tempo stesso rispettata da Marlowe e tenuta in spregio, quando si tratta di compiere delle scelte. La verità sussurrata in quell’auto e inascoltata. Il finale crudo, duro persino oggi, con l’antagonista finito dai suoi stessi alleati, perché “scambiato” per il nemico da freddare.
Martha Vickers avrebbe dovuto comparire nuda. Così il suo personaggio doveva essere in almeno due scene fondamentali, tensive e necessarie per porre il contrasto tra sessualità e morte, su cui è costruito Il Grande Sonno. Ciò non potè essere fatto. La censura era una forza troppo grande e potente. Non che importi, in verità. Proprio del nudo non si avverte la mancanza.
Resta il film, con la sua intatta forza e opera d’ingegno. Col mestiere. Con tutta la decadenza e il fascino dello schermo d’argento.

***

Lo dice il Generale, all’inizio del film nella serra, riferendosi alle orchidee, al profumo così intenso da sembrare marcio. A rifletterci, altro non è che il quadro di un intero genere, il noir, sapientemente ritratto in poche battute di testo. Ogni cosa in questo film sembra essere bella, pura e perfetta, per rivelare poi il lato nascosto, terribile.
Cinismo, grandissimi attori, donne magnifiche di una bellezza struggente. Bogart a suo agio nel ruolo che gli è proprio, quello di Bogey, l’uomo cui non poteva essere negato nulla (sì, proprio quello). Le attrici che duettano con lui ne sono stregate, e insieme risaltano, indimenticabili. Poi arriva Lauren, ed è netta la predilezione e l’alchimia. Loro due vivono, sul set, gli altri si limitano a fare la loro parte, a recitare. E intanto li guardano ammirati.
E stiamo parlando di cose che vedo io adesso, nel 2012, e che di sicuro videro anche nel ’46, salvo poi negarlo in inutili critiche. Sempre la stessa storia, a pensarci.
La costante della grandezza è quella di non essere riconosciuta, magari per paura di sbagliare.
E mi sovviene, a tal proposito, l’ultimo scambio di battute tra Bogart e Lauren, opportuno più che mai:
«What’s wrong with you?»
«Nothing you can fix.»

Altre recensioni QUI

Autore e editor di giorno, talvolta podcaster. /|\( ;,;)/|\ #followthefennec
    • 13 anni ago

    L’aver recensito questo film ti rende una brava persona. L’averlo recensito così bene, anche di più.

      • 13 anni ago

      Sono un bravo ragazzo, sono! 😀 (cit.)

      (Thanks!) 😉

    • 13 anni ago

    Io quoto Gianluca: non è il mio genere di film, dell’epoca preferisco i film di Rossellini, “Roma città aperta” su tutti, ma se dovessi iniziare partirei da qui. Bel post, come sempre.

      • 13 anni ago

      Grazie, Massimo. 😉

    • 13 anni ago

    A me il noir manca, ma mi rendo conto che ho ancora un sacco di tempo per colmare tutte le lacune cinematografiche e narrative. E dopo aver letto – anzi, vissuto, perché in post come questi in cui traspare la passione del recensore si vive e non si legge – questa recensione ho deciso che “Il grande sonno” sarà il mio primo noir, quando mi sentirò pronto ad assaggiare il genere. 🙂

    Ciao,
    Gianluca

      • 13 anni ago

      Certo, ammetto che possa (dico “possa”) non essere di gusto immediato: capita spesso con quei film che percepiamo come troppo distanti nel tempo.
      Però… se ti ci abitui e cominci a notare le finezze della messinscena scatta la folgorazione.
      😉
      Grazie, Gianluca.

    • 13 anni ago

    Hell : eccome se è inquietante !

      • 13 anni ago

      Come vedi aveva ragione Davide, il noir è un genere che non offre risposte, ma pone domande giuste. ^^

    • 13 anni ago

    Eccomi qua, ad un post su Marlowe e il noir non potevo mancare di commentare. Sto leggendo Millennium thriller che di thriller ha ben poco il titolo originale infatti è The best american Noir of the Century, è un tomo che contiene racconti dal 1923 al 2007 di autori come Cornell Woolrich, che voi cinefili conoscerete certamente come ispiratore di ottimi noir, Jim Thompson, Michey Spillane, James Lee Burke, James Crumley e intanto penso che è in assoluto il genere che più amo. Chandler in assoluto è il mio preferito, da un punto di vista tecnico il suo stile è di gran lunga insuperato. Il noir per me è fatto di carta e di inchiostro ma ho amato anche molti film specie francesi. La lettura della tua recensione mi ha portato alla memoria tanti ricordi, davvero coinvolgente, di un vero appassionato. Che dirti di più: grazie.

      • 13 anni ago

      Grazie a te, Doc. E grazie per aver insistito così tanto da essere riuscita a commentare. 😀
      Interessante la segnalazione del libro!

    • 13 anni ago

    Ecco una cosa che hai , giustamente, notato è che nei noir i peggiori sono sempre quelli delle classi più agiate. E qui mi viene in mente la frase di John Hustoun in “Chinatown” : “I politici, i monumenti e le puttane diventano tutti rispettabili se durano abbastanza. “. Dietro la rispettabilità c’è sempre il marcio alla fine.

      • 13 anni ago

      Non che sia un’equazione, però col fatto di durare abbastanza sono d’accordo. È lo stesso principio dei blog, bada bene.
      Ogni giorno vengono aperti migliaia di blog sugli argomenti più disparati. Per estremi, si potrebbe affermare che, non importa ciò che viene scritto, se sia giusto o sbagliato, importa durare.
      È inquietante, lo so.

    • 13 anni ago

    Ecco. Sono il solito dislessico .
    Ahhh ahhh ahhhh. 😀

      • 13 anni ago

      Direi che ora funziona. 😀

    • 13 anni ago

    No, allora fai un piacere prova tu.
    Mi sa che la piattaforma che usi mi odia. 🙂

      • 13 anni ago

      Ora dovrebbe essere a posto, Avevi sbagliato a digitare: nocurnia anziché nocturnia. Prova adesso. 😉

    • 13 anni ago

    Dovrebbe essere a posto adesso.
    Proviamo. 😉

    • 13 anni ago

    Lo ha già detto Davide…volevo celebrare la grande Leigh Brackett semidimentica scrittirice di fantascienza.
    Per il resto il post è una celebrazione di un epoca, gli anni ’40 Losangelini, oscura ma mitica.
    Mi sa che é il mio primo commento da mesi? 😉
    Ciao.

      • 13 anni ago

      Ciao, Nick. 🙂
      Colpevole da parte mia averla dimenticata. O forse no, dato che per vizio dimentico spesso di fare i nomi. La forza del film è tale che le informazioni si lasciano smarrire.
      😉

      (p.s.: aggiungi l’URL al tuo blog nel profilo utente. Oppure lo faccio io?
      Questo comporterà la messa in moderazione automatica del tuo prossimo commento. Dopo di ché, via libera. 😉 )

    • 13 anni ago

    Doveva essere il 1990.
    Pioveva.
    Sotto ai portici di Via Po, a Torino, c’era un rivenditore di libri usati che aveva un’ampia selezione di poster cinematografici.
    Stampe di qualità, roba costosa.
    Ero con un’amica, e chiacchierando prendemmo a sfogliare i poster, finché non cascai su quello di Bogart e Bacall, l’ultima immagine della galleria qui sopra.
    È bellissimo, disse lei.
    Io pensavo che lei fosse bellissima, e comperai il poster.
    Il poster è ancora qui nella mia camera, sopra il letto.
    Lei non so che fine abbia fatto.

    Mi piace il noir.
    Ho visto tutti i film che sono riuscito a vedere, inclusi proto-noir e neo-noir.
    Ho una bella collezione di saggi sul genere.
    Il Grande Sonno è uno dei miei dieci film preferiti, ammesso che esista una simile lista.
    E invecchiando mi pare che il noir sia il genere con le risposte… o per lo meno con le domande giuste.

    Ottimo post.
    Un solo rigo ancora per ricordare Leigh Brackett, sceneggiatrice del film.
    La regina dei pulp.
    Una signora di classe.

      • 13 anni ago

      Io il poster non ce l’ho, ma è lo sfondo del mio account twitter. Ben misera cosa, lo so. Farò meglio.
      E concordo con la riflessione che fai sul noir, genere attualissimo, che pone le domande giuste, tralasciando le risposte.
      Ché le risposte, di solito, son quelle del libro di testo: senz’anima.

    • 13 anni ago

    Certe volte mi chiedo che effetto deve aver fatto vedere questi film con la mentalità dell’ epoca. E vorrei tornare indietro per provare quello che hanno provato gli spettatori degli anni ’40 messi di fronte a una cosa così enorme.
    Poi però, ogni volta che rivedo questo film, divento in bianco e nero anche io 😉 e, come dici tu, finisco immersa in quella trama così intricata, piena di strati e di sussurri e mi perdo.
    Magia. Quella vera. Il Cinema.

      • 13 anni ago

      Che bello… Sembra tutto possibile, in fondo. Ed è SOLO un film. ^^

    • 13 anni ago

    Il noir come genere mi manca, nel senso che non ho mai visto tanto e ne so ancora meno.
    Però, ehi, dopo una recensione così non si può rimanere indifferenti.
    Forse guarderò il film, forse no, restano però i complimenti per quello che traspare dalle tue parole: è come se lo avessi già visto, il film, e credo che se anche sopperirò a questa mancanza non mi stupirò di rimanerne stregato.
    Complimenti! 🙂

      • 13 anni ago

      Guardalo, guardane solo uno, questo magari, per capire. 😉
      Thanks!