Simon Stålenhag, svedese. C’è qualcosa di estremamente poetico, nella sua visione del futuro.
Sporco, decadente, usurato, ma non per forza distopico.
Non c’è distopia nella consunzione.
Più che altro, è un futuro realistico. Inarrestabile e difettoso, come è la nostra specie.
Come sarà sempre.
Non c’è futuro, o civilizzazione, che non comporti abbandono o entropia.
Lo testimonia il nostro presente.
Forse, il presente di ogni epoca che ci ha preceduto e che ci seguirà.
Gli sfasciacarrozze, le case degli accumulatori, i mucchi di spazzatura abbandonati ai lati della strada. E ancora i veicoli usati, sottoposto alle intemperie, agli urti, al tempo.
Niente, a ben guardare, è perfetto, là fuori.
Provate a guardare dalla vostra finestra. C’è imperfezione ovunque.
Il disordine è ciò che completa il quadro.
L’imperfezione della perfezione. Però rivolta al futuro.
Con una certezza:
La scarsa coscienza civica.
A qualcuno, anche secoli di là da venire, non mancherà mai. Qualcuno continuerà, in barba alle sanzioni, ad abbandonare rifiuti per la strada.
Le imprese continueranno a essere aperte, costruite sulle ambizioni dei singoli.
Alcune avranno successo, altre finiranno per diventare ruderi, come i sogni di chi le ha messe in piedi.
Realtà virtuale, o aumentata, cumuli di bilocali costruiti con materiali di recupero, che costituirebbero pop art applicata al consumo quotidiano.
Una strana commistione tra elettronica vintage e biologica, che riecheggia di incubi cronenberghiani, probabilmente, anche questo, un futuro ineluttabile.
Vecchi stereo con escrescenze carnee, gameboy che divengono incubatrici di chissà quale entità al servizio della specie.
Un androide, ricoperto di tessuto umano, dismesso e gettato in un campo fiorito, riconquistato dalla natura.
Un relitto del futuro.
Forse è questa l’essenza della nostra specie. Forse è per questo che trovo l’opera di Simon Stålenhag così rilassante.
È come guardarsi in uno specchio, senza la ricercata e ossessiva ipocrisia della perfezione a tutti i costi. La perfezione pulita, asettica.
Essa non ci appartiene.
La sua assenza ci consola.
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