Parliamo ancora di Paolo Sorrentino, perché di questo si deve parlare. Specialmente adesso.
Prendete quasi tutti i film prodotti in Italia negli ultimi vent’anni e dimenticateli. Il Divo, spesso definito il più “americano” dei film del regista, è lì, ancora una volta a dimostrarci che il bel cinema italiano esiste davvero. Ed è capace di
intrattenere
divertire
riassumere in maniera intrigante e ironica, se si considerano le scelte sonore che accompagnano sequenze feroci, alcuni degli episodi più neri della storia italiana contemporanea: l’omicidio Pecorelli, l’omicidio Dalla Chiesa, l’attentato che costò la vita al Giudice Falcone e alla sua scorta, etc…
Il paradosso artistico, che fa tremare.
E si può ottenere tutto questo senza essere pedanti, noiosi, didascalici e moralisti. Ovvero com’è, normalmente, il cinema italiano.
Ma non quello di Sorrentino, grazie a Dio. Non bastasse la perizia con cui la macchina da presa, mobile, fluida, s’insinua negli eventi.
Poi, su tutto, troneggia Toni Servillo, che si deforma per impersonare l’Eminenza Nera (o Belzebù), Giulio Andreotti. Venticinque volte ministro, sette volte Presidente del Consiglio, dalla restaurazione della democrazia in Italia. Anno 1946.
Parliamo solo dell’oggetto film. La politica la lasciamo a tribune più pertinenti.
E che si faccia cinema nell’accezione più ampia, e non fiction educativa ammaestratrice all’italiana, è evidente da ogni singolo fotogramma, che fa quadri di ogni scena rappresentata, che prende un personaggio chiacchierato e odiato e lo eleva a star, facendone giganteggiare la statura (lui che, di media statura, non vedeva giganti attorno a sé, cit.) ed esaltandone proprio quei vizi e quel lato oscuro che tanto, per sé e per gli altri, hanno cagionato.
Molti di noi, quasi tutti, ormai, siamo stati forgiati nella sua ombra. Pensateci.
Andreotti è un immortale. Ieri, per un attimo, guardando il film, mi sono domandato se fosse ancora vivo. Se per caso mi fossi sbagliato, credendolo morto. Perché, da che mi ricordo, lui c’è sempre stato. Come il muro di Berlino, solo che quello è durato di meno.
Un colosso invalicabile.
Sono andato a verificare: la cosa è avvenuta pochi mesi fa, il 6 Maggio del 2013. Se n’è andato sul serio.
Questo per dire quanto, la sua silhouette, onnipresente nei palazzi del potere, abbia plasmato l’Italia. C’è sempre stato lui, in quei palazzi.
Un accentratore di potere e segreti. Lui e il suo archivio. E la scatola nera ficcata nella gobba (cit.), smontata la quale avremmo dovuto conoscere le risposte all’intera epopea della Tensione.
E invece siamo ancora qua, a chiederci come siamo arrivati a questo punto e perché. E brancoliamo nel buio, ché nel frattempo abbiamo perso pure il midollo, non solo la spina dorsale.
Per la sua stessa natura, e probabilmente anche a causa del suo aspetto vampiresco, mi ha sempre ricordato il Nosferatu di Murnau quando fa l’ingresso, incastonato nel vano d’una porta; oltre che per la carica pubblica che ha perennemente occupato, Andreotti è/era il personaggio perfetto per essere immortalato al cinema. Funziona. Ha funzionato sempre.
Il solo luogo, oltre che la letteratura, dove caratteristiche come le sue, l’ambizione, la costante manipolazione del potere, il controllo assoluto, potevano permettere a un uomo siffatto di emergere come protagonista e garantirgli, attraverso la sublimazione di quegli stessi difetti, la simpatia del pubblico.
È impossibile non tifare per l’Andreotti di Toni Servillo e Paolo Sorrentino, pur odiando il vero politico, magari. Perché questo è anche cinema e intrattenimento. Uno rabbrividisce pensando ai sospetti che aleggiano intorno al Divo Giulio, però poi sorride quando lo vede baciare Riina.
Ci viene presentato insieme al suo “pool” di politici/squali/faccendieri/arrivisti (ché ognuno combatte le battaglie coi soldati che ha, cit.) che arrivano alla spicciolata, uscendo da auto di lusso, quasi una riedizione de Le Iene, la “corrente andreottiana”, accompagnati da un tema epico.
A confermare che l’Italia e la sua storia, persino la storia recente, è materiale vivido per l’arte. Per quanto atroce. O forse proprio per questo.
Riflettete, pensate a quanto scandalo e quanto dolore hanno percorso la penisola solo dagli anni Novanta a oggi, pensate a quello che si potrebbe realizzare a livello artistico.
Si potrebbe, se non fossimo impantanati nella palude culturale coeva. Ché il guaio è proprio quel lasciar fare che sottende a ogni misura adottata, nel film come nella vita, quel professionismo che “ci sta uccidendo” (cit.); l’ineluttabile immobilismo andreottiano si è espanso, contagiando ogni ingranaggio dell’architettura politica italiana. Per non citare di ciò che è avvenuto dopo, ma, come detto, questa non è una tribuna politica.
È la stessa logica alla base del successo de I Soprano, dove i protagonisti sono deliquenti e assassini, esempi di negatività, ma catturano l’empatia.
L’Andreotti di Servillo cattura l’empatia, coi suoi motti di spirito, le osservazioni sagaci, col suo aspetto buffo che, anche nella realtà, ha portato a dubitare gli inquirenti rispetto alle gravissime accuse mossegli, dalle quali peraltro è stato ripetutamente mandato assolto in Cassazione.
Il più grande criminale della storia d’Italia, o il più grande perseguitato.
Anche se la storia, come diceva lui stesso, è sempre più complessa di come la si racconta.
Alla fine assistiamo a un horror, come dice la mia amica Silvia.
Andreotti si propone alla futura moglie in un cimitero.
Dai su, chi non ha mai fatto la dichiarazione in un cimitero?
Capite cosa intendo? È irresistibile.
Il film è lui, il Divo Giulio, che sta come una roccia, immobile, mentre il mondo italiano gli crolla intorno tra attentati, rimpasti, fughe, processi, omicidi, stragi, con l’ombra di Aldo Moro addosso, come un’emicrania.
Forse è stato un caso, forse la Volontà di Dio. (cit.)
Personaggio, dicevamo.
E storia.
Terribile.
Grande cinema italiano.