Oggi, per la rubrica del venerdì, ci occupiamo dell’italianissimo Daniele Serra.
Dando uno sguardo al suo portfolio, la mia mente ha subito evocato due concetti: dinamismo e orrore.
Il primo è da intendersi nell’accezione meno ovvia: quella dottrina filosofica che pone a fondamento dell’universo la forza o l’energia.
Perché di altro universo si tratta. Quello raffigurato da Serra è un tessuto fatto d’incubi e visioni. Da buon creatore, avvezzo a tradurre in immagini anche i sogni altrui (Serra vanta numerosissime collaborazioni internazionali, tra cui quella con Joe Lansdale), guarda, attraverso una porta, una realtà trasfigurata.
Visione d’incubo, abbiamo detto, ma sarebbe riduttivo.
C’è del fiabesco, c’è l’archetipo della narrazione e capacità affabulatoria. Riversata sia nel tratto che nei dettagli. In particolare, della tavola qui sopra colpisce sia la capacità di imprimere ai volti delle due figure emozioni trascinanti, sia la perizia con la quale, tramite pennellate veloci, s’è realizzato il tessuto della veste della figura femminile, impegnata in qualche incantesimo, in una preghiera, o forse solo in sogni di gioventù, pressati dai malvagi consigli incarnati dall’uomo barbuto, il cui copricapo dalle linee curve, unito all’acconciatura della fanciulla, rimanda a fiabe orientali.
Gli incubi però esigono il loro tributo, e lo ricordano all’incauta scopritrice di Face, il cui volto è uncinato da chissà quale pretendente.
In questa tavola risalta quello che, poi, si rivela essere tratto comune dell’artista, quel dinamismo, quella forza citata all’inizio. Imprimere il movimento a un disegno statico. E Serra vi riesce con pochi tratti, credo singoli colpi di pennello, piccoli archi che riescono a suggerire lo spostamento d’aria, la lenza che si tende, il tessuto muscolare che viene brutalmente stirato di conseguenza…
Con Wood, sembra di assistere a una pausa, un momento di effimera tranquillità, al riparo di robusti rami, da una fuga. Fuga che può essere conseguenza di un inseguimento, o di volontario allontanamento da una realtà contingente troppo pressante.
La presenza di quell’ammasso metallico, poi, suggerisce una realtà nemmeno troppo idilliaca, a fare da cornice alle aspirazioni della figura. Una fuga che, forse, non è mai nemmeno iniziata.
Clown presenta due figure, l’innocenza e la curiosità femminile cinta dall’incubo, o meglio sovrastata. E che sia un incubo, al di là della facile metafora del pagliaccio, ce lo rivelano le zanne irte, i contorni sfumati, l’intera teoria dei movimenti che accompagna il clown, la cui veste, come il tendone alle sue spalle, è scossa dal vento.
Colpisce, però, la serenità nel volto della fanciulla, a dispetto della circostanza. Il clown sembra avere quasi valenza simbolica: forse un pericolo reale e possibile, oppure il passato, che ci portiamo sempre addosso, accoccolato sulle nostre spalle, non importa quanto esse siano esili.
Ancora la foresta protagonista in Woodland, e un giovanissimo esploratore che dà seguito ai sogni d’avventura dell’infanzia, immaginando mondi lontani, che sorgono in realtà dietro casa e che d’un tratto, rivelano voragini in fiamme.
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