Ci risiamo, assisto per l’ennesima volta alla magia di Robert E. Howard. Coinvolto in prima persona, pur essendo spettatore.
E ieri, nella calura agostana, si spalanca il palcoscenico di Xapur la turrita, rovine di un’antica città, su un isolotto del Mare di Vilayet.
Il Demone di Ferro (The Devil in Iron) fu pubblicato su Weird Tales nell’Agosto del 1934.
Coincidenze, che s’incastrano alla perfezione.
Howard guadagnò 115 dollari, da questo racconto. Niente male, è una cifra che, oggi, vorrei guadagnare io. Lo sogno con la stessa potenza vivida del loto nero.
E siamo sempre lì, abitanti stregati da filtri magici, addormentati, scossi da incubi d’una violenza sanguinosa. Antichi rituali, esseri umani che si sono fatti dei, e sono impazziti di fronte all’eternità.
A ben guardare, e non credo sia solo la simpatia che mi lega a questo scrittore, nei racconti di Howard c’è ben altro che le spade, le scream-queen ante litteram e i cattivi facili facili. C’è coerenza e ossessione. Ci sono temi riproposti con convinzione: al di là della semplice contrapposizione tra barbaro e uomo civilizzato, è l’idea che oltre la morte, e la natura, ci sia il male. Ecco, questa è un’intuizione felice e potente, che sussurra e si snoda in tutti i racconti di Bob. Conan la teme e la rifugge, per puro istinto. Ciò che viola la natura lo terrorizza.
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Conan è un alieno. Mai come in questo racconto, infatti, s’avverte netta la contrapposizione, nella bocca di tutti gli antagonisti e dello stesso narratore, tra civiltà e barbarie, a netta preferenza di quest’ultima. La “filosofia” di Two-Gun Bob la conosciamo, l’ho citata in tutti gli articoli dedicati al ciclo di Conan. Inutile dilungarsi anche qui. Ma ciò che importa è che in questo testo, Il Demone di Ferro, quasi si presenta la diversità di Conan come alienazione, nella forma più pura. Da barbaro, Conan è alieno a questo mondo, ne è separato. Appartiene a un’altra specie. E questa specie stenta a comprendere l’umanità, ancor più quella vetusta, persa negli eoni, sopravvissuta in tracce, rovine di città e, trovandola corrotta e malvagia, non esita a sfidarla, combatterla e vincerla.
Howard, per la prima volta, ancora, gioca con la serialità del personaggio Conan. Costui è l’eroe, non può perdere, inutile girarci intorno, il suo destino è il trono d’Aquilonia, non quello di crepare su un’isoletta sperduta del Vilayet, un mare interno. Per cui sì, pur essendo la minaccia di Khosatral Khel all’apparenza insormontabile, pur affrontando nemici armati fino ai denti, Conan batte la morte, ché è più forte delle volontà altrui. È il prescelto, è già l’eroe dei fumetti, dei telefilm, del cinema.
Solo che Howard non lo sapeva. Lo intuiva, magari, ma non lo sapeva. Se ne stava nel deserto, a parlare con Novalyne e a sognare un destino diverso, ché forse il proprio lo conosceva già.
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Gli howardiani di ferro (come il demone, quindi malvagi XD) rimproverano a The Devil in Iron di sfruttare ambientazione e spunti simili a un’altra storia, Ombre al Chiaro di Luna, anch’essa ubicata in un’isoletta del Vilayet, anch’essa prevedendo la scream-queen, i demoni di “ferro” (le statue) e l’irruzione di Conan in questo quadretto malsano, che sa d’antichità morbosa e di rituali disturbanti.
Ma io ci vedo anche influenze con un’altra delle mie storie predilette, L’Ombra che scivola.
Ne il Demone di Ferro abbiamo un’isola in cui (ri)sorge Xapur, una città. All’opera un gigantesco sortilegio di un semi-dio, Khosatral Khel, che risvegliato in una notte di tempesta dal suo sonno, fa comparire l’antica città sulla quale dominava, e tutti i suoi abitanti.
L’assonanza di temi non comporta nulla. La descrizione che Howard fa dell’incontro di Conan con una superstite della vecchia Xapur, confusa, afflitta da ciò che crede essere un incubo, ma che in realtà è l’atroce ricordo della notte in cui è morta, la città assalita dalla stirpe che Khosatral aveva asservito, è da brividi, così come il passo seguente, in cui Conan apprende l’irrealtà dietro l’esistenza degli abitanti di Dagon:
But folk who have tasted of death are only partly alive. In the dark corners of their souls and minds, death still lurks unconquered. By night the people of Dagon moved and loved, hated and feasted, and remembered the fall of Dagon and their own slaughter only as a dim dream; they moved in an enchanted mist of illusion, feeling the strangeness of their existence but not inquiring the reasons therefor. With the coming of day, they sank into deep sleep, to be roused again only by the coming of night, which is akin to death.
Ma coloro che hanno provato la morte sono solo in parte vivi. Negli angoli bui delle loro anime e delle loro menti, la Morte osserva, indomita. Durante la notte, la gente di Dagon si muoveva e amava, odiava, festeggiava, e ricordava la caduta di Dagon e il proprio massacro solo come un sogno vago; muovevano in una nebbia incantata d’illusione, avvertendo la stranezza della loro esistenza, senza indagarne le ragioni. Con la venuta del giorno, sprofondavano nel sonno, per essere poi risvegliati alla venuta della notte, parente della morte.
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Il Demone Khosatral, di ferro vivente, viene colpito a morte, proferendo urla simili a rintocchi di campana. Immagine potente, come quella del serpente che dorme, in una delle sale di Xapur, scena, quella della lotta contro il serpente gigante, rievocata da Milius, nel suo adattamento cinematografico.
Ottavia, la co-protagonista, appartiene alla schiera di quelle che io affettuosamente definisco scream-queen howardiane, bionda, pelle candida, caratterino insolente. Perfetta compagna d’occasione per Conan, e tuttavia non spicca come Natala, ad esempio, che resta per me la migliore.
Ottima padronanza stilistica e narrativa, quella che permette a Howard di radunare, con poche frasi e con motivazioni differenti, ma credibili, tutti gli attori di questa commedia in un unico luogo, l’isola. Ciascuno sarà coinvolto con l’evento straordinario in atto, e col quale è chiamato a confrontarsi. L’eterna lotta, elemento fondante la cosmogonia dell’autore.
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