Cinema

Il Cronenberg di Crimes of the Future

Qualche giorno fa leggevo uno sproloquio relativo al “successo”, che specie agli autori italiani non viene perdonato. Ci tornerò, promesso, è che… insomma, non ho potuto fare a meno di pensare a Cronenberg e al suo Crimes of the Future. Sì, omonimo del film, sempre di Cronenberg, del 1970. Cinquant’anni fa Cronenberg girava intorno alle stesse idee, alla “bellezza interiore”, letterale, che va premiata giudicando la qualità degli organi interni.
David Cronenberg, cinquant’anni dopo, e due dopo aver perso sua sorella, ancora prova a – il caso di dirlo – incarnare le sue idee, e ancora deve dipendere dal giudizio altrui. Ovvero quello di chi ha prodotto il suo film e che l’ha relegato istantaneamente, come direbbe Stephen King, ai film da cestone. Quelli che non guarda nessuno.
Risultato, Crimes of the Future non è in effetti stato guardato da nessuno, al cinema, ed è diventato un flop commerciale clamoroso.

Pare strano, ma nemmeno Cronenberg, a quasi ottant’anni, può dirsi arrivato. Deve ancora dipendere da altri per il successo dei suoi film. E io credo che sia tutto un problema di percezione, sbagliamo a guardare. Nessuno, penso, si azzarderebbe a dire che Cronenberg, oggi, non conosce il suo mestiere. È un professionista, ha le sue idee, ha avuto la forza, la fortuna e la bravura di concretizzarle. Non credo gli importi granché delle definizioni che gli vengono attribuite e del giudizio altrui. Importa ciò che realizza: i suoi film.
Che poi il sistema li valorizzi o ci sputi sopra, perché gestito da ragionieri senz’anima, è un altro discorso.
Mettiamo da parte l’autore, quindi, e pensiamo solo a ciò che viene realizzato.

Crimes of the Future ha tutta l’aria di un testamento spirituale. Spero con tutte le mie forze che non sia l’ultimo, di Cronenberg, ma il fatto è che io l’ho trovato così pregno, così equilibrato, così… professionale, che dubito ci sia rimasto altro da dire sulla “carne”.
L’evoluzione per Cronenberg è segnata dalla trasformazione della carne, che non è solo somatizzazione di stati emotivi e/o di incarnazione di ideologie (come in The Brood o Videodrome), ma diviene letteralmente superamento.

La carne risponde agli stimoli dell’ambiente, che noi stessi abbiamo contribuito a far decadere, per adattarsi, perché la nostra specie possa continuare a esistere. Un mondo inquinato è un mondo dove c’è abbondanza di residui tossici. Si deve trovare il modo di sfruttarli, secondo il solito adagio che vede l’essere umano trarre giovamento e linfa vitale da ciò che lo circonda.

Inoltre, Crimes of the Future sembra permeato dalla vita reale, ho già detto di Denise Cronenberg, passata a miglior vita, che è sempre stata la costumista di David, fino al 2020. Questo è il suo primo film senza di lei. Ed è anche il film che Viggo Mortensen avrebbe potuto non girare mai: è stato colpito da un cavallo durante uno spettacolo equestre all’American Kentucky Derby e da allora riesce a mantenere la posizione eretta per non più di un paio di minuti, dovendo subito sedersi. Il suo Saul Tenser, l’artista, colui che crea in sé nuovi organi per veicolare la sua sensibilità, come fossero opere d’arte, è afflitto dai veri dolori di Mortensen e viceversa, ne percepiamo la sofferenza divenuta ormai quotidiana, abitudine, dipendenza. Non si può sfuggire al dolore.

Crimes of the Future s’aggira intorno al concetto di dipendenza e deviazione dalla norma come fatto ineluttabile, passo evolutivo. La società e l’ambiente di C. o. t. F. sono in costante consunzione, freddi e singolari burocrati s’aggirano in uffici decadenti, dalle pareti scrostate, provvedendo a continuare l’illusione dell’ordine costituito, registrando meticolosamente ogni nuova manifestazione biologica, aggiornando il registro dei nuovi organi, che sono anomalie, al pari delle opere d’arte. Qui Kristen Stewart (Timlin) fa proprio il ruolo dell’impiegata di regime con nostalgie del passato sessuale della specie, ben consapevole che la sua ricerca è per nulla dissimile a una passeggiata al mercato delle pulci, abitudini e piaceri a cui l’uomo attuale non è più avvezzo, a livello genetico.

Se il corpo umano è la realtà, la chirurgia è il nuovo sesso. Una chirurgia praticata su complesse macchine automatiche, che possono essere riprogrammate alla bisogna, che estirpano i nuovi organi, quasi fosse una repressione religiosa, lasciandoli alla mera contemplazione, quando, perché essi abbiano un vero scopo, devono esistere. Esistere nei corpi che li hanno generati, e che sono dimore naturali.

L’essere umano si è evoluto, così come la società che ha creato, nel bene e nel male. Opporsi vuol dire continuare a ingannarsi con droghe e fumo negli occhi, accettarlo indica venire a patti con la propria natura: nutrirsi di tossicità, della tossicità che noi stessi abbiamo creato, è l’unica via per uscire dal conflitto e dal dolore.

Ancora, dopo decenni di polemiche e discussioni, si tende a associare la bontà del film al suo successo in termini di pubblico, e ancora una volta devo puntare i piedi e dire che le due cose non c’entrano nulla. La fortuna è aleatoria e passeggera, l’arte, almeno quella riconoscibile, è perenne. A ottant’anni, dopo aver realizzato un flim così, che il pubblico lo veda può anche non interessare, tutta la capacità di David Cronenberg come autore e regista sono qui dentro, nessuno può dire che non abbia del mestiere. Più che altro, a ottant’anni e con un film così, puoi anche permetterti di fregartene del giudizio altrui, delle critiche e delle conferme dei pari, diventa solo chiacchiericcio, rumore di fondo. Irrilevante.
Dobbiamo guardare le opere, non gli autori.

Chapeu, David.

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