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Il combattimento in narrativa

Il combattimento è un altro dei luoghi narrativi.
Si esplica nello scontro fisico, innanzitutto. E, col progredire della tecnica e delle tecniche di offesa, a distanza, ma, in teoria, il significato rituale è intatto.

Esempio di combattimento diretto nella narrativa antica: Achille contro Ettore.
Dove a rischiare di diventare leggenda non è tanto il primo, già benvoluto agli dei, già leggenda, quanto il secondo, semplice uomo, seppur valoroso, che affronta un semidio pur avendo la certezza di essere sconfitto. D’onore si può morire.

Esempio moderno: il cecchino che abbatte i nemici attraverso il mirino dello sniper. Un omicidio a 800 metri di distanza diventa automaticamente “qualità” da ammirare, temere e riverire, perché supera i limiti umani, o ne fissa di nuovi e difficilmente raggiungibili.

Poi c’è l’antico aggiornato: trovo che esempio calzante sia il moderno cinema indonesiano, in special modo The Raid 2: Berandal, che è sostanzialmente la via dell’eroe Rama, che strappa alla storia la sua leggenda innestandosi nel conflitto tra due famiglie di potenti, abbattendole entrambe, scontro dopo scontro.
Qui il combattimento, come spesso accade nel cinema orientale, è corale. Non solo il singolo che sfida se stesso e la morte, ma anche l’eccidio, l’ecatombe, il sacrificio rituale, dove a ogni uccisione si compiacciono gli dei degli inferi, in un rituale non dichiarato di deificazione/adorazione.

Sì, ci sono anche scene di lotta del tutto avulse dal contesto, ma questa, di solito, è brutta narrativa.
Il combattimento è, associato alla figura dell’eroe, il mezzo – e il modo – che quest’ultimo ha a disposizione per superare la propria, limitata natura fisica e trasfigurarsi.
È dare prova di sé, distinguersi.
È per questo che le storie dei pugili hanno così tanto successo, se ci pensate, pur essendo identiche l’una all’altra: redenzione e riscatto attraverso il combattimento. E poco più.
Dopotutto, parliamo di eroi, di personaggi che devono spiccare, devono reggere su di sé e sulle proprie spalle il peso di una storia.
Gli altri, i personaggi minori, sono quelli che restano a casa, nella loro terra, a coltivare i campi e a allevare marmocchi, anche loro chissà, futuri eroi.
Agli occhi di un dio bonario, il padre di famiglia ha più dignità, senza di lui, e senza sua moglie, e senza il loro estremo sacrificio (di solito, vengono trucidati perché l’eroe trovi la motivazione al suo agire), l’eroe non esisterebbe neppure.
Agli occhi di un narratore spietato, e di un lettore/spettatore anche più spietato di lui, invece, a contare è solo l’eroe. È lui che deve condurre la storia, agire, essere pregato, svegliarsi, prendere atto del fato, o sconfiggere quest’ultimo, se particolarmente avverso, o addirittura sacrificarsi, per permettere ad altri padri e madri di famiglia di allevare futuri eroi.
L’eroe, per completare se stesso e superarsi, deve trasfigurarsi.
E la trasfigurazione avviene attraverso il combattimento.

Per trafigurazione non intendiamo l’essere pervasi da un qualche dio della guerra, perché in questo caso l’eroe perderebbe l’identità, che è la sua natura, la qualità che lo caratterizza in quanto essere mortale e limitato, contrapposta alla deità, che pur avendo limiti non conosce quello del tempo fisico, e quindi da essa il nostro eroe ne viene surclassato.
No, come dicevo, il combattimento è mezzo espressivo, impresa attraverso la quale la limitatezza dell’uomo trascende e sfiora l’immortalità. È mezzo per la deità.

Di solito, i confini sono netti, almeno nel nucleo. L’eroe può essere tenebroso, poco definito nelle intenzioni, ma di solito i nemici che si trova ad affrontare sono peggiori, sono il male, la tenebra, l’assenza di definizioni, di forme e quindi di valori: il caos.
Il caso sottende a qualunque genere, dal giallo al noir, soprattutto alla guerra.

Quindi l’eroe, o l’anti-eroe, ogni volta che decide di combattere, che sia evidente o meno, si pone in una situazione di pericolo, affronta direttamente, con scontro fisico cruento la morte.
Se riesce a batterla, ne uscirà leggendario. Ammettendo che, in casi particolari, persino le morti fanno leggenda, se particolarmente uniche e strabilianti.
Se non ci riuscirà, lascerà il posto a qualcuno che verrà dopo di lui.
Le profezie – in tal senso – sono un modo comodo per far quadrare il cerchio, soprattutto nella narrativa: sono vaghe di proposito, proprio per risultare sempre esatte, anche se per essere soddisfatte possono volerci millenni e centinaia di combattimenti sbagliati, fino a ottenere il risultato voluto.
Ma questa è un’altra storia…

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