A volte, il messaggio di una narrazione arriva in ritardo, come un’eco frammentata.
Crimson Peak appartiene, in quanto opera di narrazione, a quel Gothic Revival che, dall’Ottocento, non sembra aver mai conosciuto pause, trasformandosi di decennio in decennio, al variare dello stile e della sensibilità coeva.
Il punto non è se i fantasmi carnosi e a brandelli di Crimson Peak facciano o meno paura. Quella è la parte più superficiale, con la quale il Gotico è stato inteso, fin dalle origini. E non è necessarimente quella esatta. Gotico e fantasmi, sovrannaturale opposto alla Ragione del secolo dei Lumi, dimenticando che il Gotico guardava soprattutto all’individuo, all’uomo comune, schiacciato da una ragione accecante e che, tramite l’incontro con un mondo altro, che si credeva sopito, arrivava a scoprire se stesso o qualche dramma interiore sotto forma di segreto pulsante.
Guillermo Del Toro tiene una lezione sul Gotico com’era allora e com’è sempre stato, e lo fa oggi, nel secolo successivo a quello di Satana (che è il XX), quando tutti noi siamo radicalmente cambiati dall’interconnessione e, quelle personalità, che alle origini del Gotico sarebbero sembrate inarrivabili, sono oggi a portata di clic.
Il XXI secolo ci ha ridimensionato liberandoci. Siamo ancora più schiavi del progresso scientifico di quanto lo fossero nell’Ottocento, quando nella Londra industrializzata piombava, col suo lezzo di fiori di cimitero e la sua terra sacra, il principe Vlad, per darci una lezione sulla relatività del tempo.
C’è il progresso, in Crimson Peak, nella cerca da mendicante del protagonista, Thomas Sharpe (Tom Hiddleston), per richiedere crediti, nei dattiloscritti, attraverso cui affermarsi come novità e insieme sovversione sociale. Diventare una scrittrice, per una donna, significava essere fuori posto e associata a personalità come Jane Austen o Mary Shelley. Ancorché la prima è da considerarsi in opposizione al gotico. Austen, infatti, apparve a diradare le ombre dei castelli e i loro fantasmi, ché la vita reale era già abbastanza complicata, mentre Shelley (non a caso a lei si ispira Edith, la protagonista), madre della Creatura e del Dottor Frankenstein, sancì il definitivo successo del Gotico, popolando l’immaginario collettivo di creature archetipiche immortali. Si trattava, per Frankenstein, di un aggiornamento alla moderna sensibilità di miti antichissimi.
L’operazione che Del Toro ha inteso è nient’altro che attualizzazione, pur preservando la cornice antica, del sentire gotico.
Il revival di un revival di un revival.
Il Gotico è architettura e anima. Il sovrannaturale è messaggio. Il modernismo è, ancora una volta, chiave dell’agire. I fantasmi sono metafore, come tiene a specificare Edith, o forse sono presagi, esseri dell’altrove che sussurrano il fato dei protagonisti tragici, secondo il teatro classico.
Edith (Mia Wasikowska), ritratta mentre con un candeliere vaga nei corridoi della magione cadente degli Sharpe, sembra quasi una scoria dell’illuminismo, della ragione, che vaga nelle tenebre dell’ignoranza. Tenebre reali e cadenti, che sono quelle della casa.
Ci sarebbe da scrivere un intero tomo, sulla simbologia intrinseca di Crimson Peak, ma ci contentiamo, per ragioni di tempo e spazio, di farne un sunto efficace.
Parliamo, come accennato all’inizio, di epopea gotica non già del semplice sovrannaturale, ma dell’individuo. Edith, abbiamo detto.
L’artefice di questa mutazione del genere gotico fu, tra gli altri, Edgar Allan Poe, che incentrò l’orrore e il dramma innanzitutto all’interno dei suoi protagonisti e, di riflesso e conseguenza, nell’architettura che li circondava.
La magione degli Sharpe è sublime: immensa, terribile, cadente. Sta per crollare, in ciò e nelle cesellature sopraffine, che incarnano il gusto di un’epoca lasciata alle spalle, essa rappresenta la caduta fisica e morale della famiglia che essa s’ostina a ospitare, e che detiene il potere, per destino, del Picco Cremisi, dove l’argilla rossa tinge la neve di sangue.
La Caduta della Casa Usher, lo sappiamo, è duplice, è morale e fisica. Laddove il narratore protagonista, che qui è nient’altro che Edith è testimone del crollo e vascello superstite che ci traghetta verso un nuovo modo di sentire.
La modernità è sia ostacolo, è la modernità, infatti, da individuarsi nella macchina escavatrice di Thomas Sharpe, a tenerlo prigioniero, vincolato per l’eternità alla magione, al decadimento, sia mezzo per evadere, per scoprire grazie a colei che impugna il candeliere, la verità sui fatti di Crimson Peak, attraverso i cilindri di cera su cui le precedenti mogli del nobile Sharpe (guardacaso tre come le mogli di Dracula, nobile vivente in un castello in rovina, sospeso nel tempo come lui stesso; i cilindri, ancora, sono in Dracula il simbolo del progresso, vengono usati a più riprese dal Dott. Seward).
Lucille Sharpe (sorella e concubina di Thomas, interpretata da Jessica Chastain) è, infine, prigioniera di se stessa. È un fantasma antelitteram, vivente, che ossessivamente ripete le stesse azioni e mantiene, anche con la propria testardaggine, intatta la sospensione decadente della casa. Ne serba l’illusione, la difende dal mondo esterno con una violenza che richiama, per come scaturisce, sia Madeline Usher, che, soprattutto, Lizzie Borden, accusata, sul finire dell’Ottocento, di aver ammazzato a colpi d’ascia il padre e la matrigna. Uno dei primi assassini d’impeto registrati nell’età moderna.
Lucille che, insanguinata e coi capelli scarmigliati, insegue Edith, armata di mannaia è il passato, la difesa di un’epoca che non c’è più e che tarda, per ostinazione, a scomparire. Un’epoca color cremisi.
L’unica cosa che resta, alla fine del dramma, è proprio ciò da cui esso è scaturito: l’individuo.