C’è stato un tempo in cui i vampiri, a dispetto dei danni causati all’immaginario collettivo da Bram Stoker prima, e adesso da una certa tizia che non cito neppure, non erano fighetti romantici dall’innamoramento facile e dal rimorso abissale. Piuttosto, essi erano delinquenti brutti, sporchi e cattivi, con un malsano, ma non stupido, gusto per la violenza e per il sangue.
Il tempo a cui mi riferisco non è poi così lontano… E’ il 1987 quando Kathryn Bigelow (Point Break, 1991 e Strange Days, 1995) scrive e dirige Near Dark (Il Buio si avvicina), un film per e con i succhiasangue…
Caleb Colton (Adrian Pasdar), un moderno cowboy, conosce Mae (Jenny Wright), una ragazza che si fa rimorchiare facilmente… Mae è un po’ strana, nel buio della notte che ella, in un ossimoro efficace, definisce luminosa, si lancia in divagazioni sul tempo che passa e sui millenni che è destinata a conoscere, a differenza della moltitudine silenziosa che scompare senza lasciare traccia, né memoria di sé.
La “tipica” scopata del sabato sera, pensa Caleb, se non fosse che Mae è svagata al punto tale da dimenticare quasi che il sole sta per sorgere e che, quindi, è costretta a tornare a casa in fretta e furia. Caleb accetta di riaccompagnarla, pensa che la ragazza abbia problemi di orario. In fondo, non è mica un delinquente, e Mae, pur così particolare, gli piace sul serio; ma pone una condizione… un bacio.
In una notte a volte buia, a volte azzurrina perché al confine con l’alba, Kathryn Bigelow ci regala questa fiaba moderna e cruenta che anticipa le future atmosfere “anarchiche” del World of Darkness (1991).
I suoi vampiri sono piacevolmente cattivi, scorazzano in lungo e in largo per il territorio americano da secoli, nutrendosi notte dopo notte, perché sono quello che sono, predatori senza poesia, per mangiare. Nessun misticismo, nessuna poetica di fondo, nessuna ricerca esistenziale, ma solo l’esperienza violenta e cruda, di esseri superiori che fanno quello per cui tutti sono venuti al mondo: sopravvivono.
Caleb è ora uno di loro, un pivello che è più un pericolo per i suoi nuovi amici che una gioia. Si meriterebbe che Severen (Bill Paxton) gli “ballasse un tip tap sulle palle” (ahahahahahah) giusto per ricordargli che egli è un intruso creato per sbaglio.
La faccenda è semplice, quasi elementare: o Caleb si mette in riga e si comporta come il vampiro che è diventato, fedele e solidale col branco, o lo fanno secco. Niente di più e niente di meno.
Il gruppo di vampiri è soprendente: capitanato da Jesse Hooker, un grande Lance Henriksen, che non ha mai avuto la faccia così simile al cuoio come in questo film, secco e spietato; Jenette Goldstein, la “tipa” di Jesse, che sgozza la gente come se spillasse una birra da un bancone di un bar; Mae, cowgirl e “mamma” di Caleb, vestita con stivali e jeans sporchi e camicia senza maniche e il piccolo Homer, Joshua John Miller, all’epoca tredicenne, un “vecchio” frustrato con bisogni da adulto in un corpo eternamente bambino e forse, il più cattivo dell’intera compagnia che è sempre pronto a evirare Caleb, se questi dovesse azzardarsi a sbagliare a pronunciare il suo nome…
Il pivello Caleb, quindi, si trova costretto, tra i malori dettati dalla sua nuova condizione e l’incapacità psicologica di nutririsi di altri esseri viventi, ad affrontare il suo apprendistato in un bar di rednecks, dove i nostri si prodigano in un massacro lento, sadico e metodico che è anche, nelle intenzioni, educativo per il nuovo arrivato e dove Bill Paxton ruba la scena a tutti gli altri. Mitico il momento in cui si lamenta della sporcizia e della puzza della sua ultima vittima…
Dapprima riluttante, Caleb comincia ad apprezzare sia sé stesso che il gruppo, anche grazie al sentimento che nutre per Mae, tant’è che quando la polizia, sulle loro tracce a causa del massacro del bar, arriva ad assediarli, in pieno giorno, nel motel in cui si sono rifugiati, egli riesce determinante nella sparatoria -davvero in grande stile e degna dei migliori western- e nella successiva e rocambolesca fuga.
Ma la sua natura umana prende il sopravvento e così, a causa di quello stesso sentimento che egli prova per Mae, Caleb combatterà per guarire e per tornare a casa dai suoi parenti che, dal giorno della sua scomparsa, non hanno mai smesso di cercarlo; fino al duello finale che, contrariamente a quanto di possa immaginare, avviene sotto il sole, in un’accesa calura desertica.
Riscoprire questi film fa bene. Se non altro serve a riconciliarsi coi miti letterari che troppo spesso ormai ci vengono a noia a causa della banalità con la quale vengono trattati.
I vampiri di Kathryn Bigelow non fanno mai sfoggio di zanne, non ringhiano come cani né soffiano come gatti in calore, non sono vestiti come a una sfilata di Armani, ma indossano ridicole camicie a quadri e lacci cowboys in luogo di cravatte, quando non preferiscono, invece, sempre efficaci indumenti di pelle e il mitico “chiodo”. Sono luridi e anche piuttosto brutti, in un trionfo di neo-realismo applicato all’horror soprannaturale.
Anche in questo film è presente l’amore, ma non è il sentimento abissale che ha atteso anni e la persona giusta per essere soddisfatto; è l’amore nato da una sera, rafforzatosi a causa dei difetti e delle debolezze di entrambi, minacciato costantemente, da quella “ragion di stato” che mette la sopravvivenza del gruppo al di sopra di ogni altra fatua esigenza.
Se anche voi avete litigato con i succhiasangue, vi consiglio di vederlo… Non è certamente un capolavoro, ma un buon film, girato con mestiere da una brava regista e mai banale. Al diavolo gli studentelli innamorati…