Alcuni di voi capiranno subito il significato di questo articolo, altri meno, altri ancora affatto, ma nessuno può negare l’assoluta magnificenza e/o angoscia emanata dagli affreschi sulla fine di tutte le cose regalatici, a più riprese, da cineasti visionari.
Ho sempre pensato che lo scrittore più bravo del mondo è stato, è, sarà colui il quale riesce ad esprimere in una sola frase tutto ciò che una singola sequenza cinematografica riesce a comunicare.
C’è un fascino malsano in questi scorci d’apocalisse, in questi panorami che mostrano le città come cattedrali deserte, qualcosa che inevitabilmente richiama alla memoria la poesia sepolcrale; sono insieme spauracchio e monito, nonché memento della pochezza dell’uomo, del suo essere nulla, solo una fatua parentesi nella storia dell’universo. Essi ci mostrano paure, ansie, disperazione e una malinconica bellezza infinita, accompagnata dal silenzio, dall’assenza, quasi paradossale, di tutto ciò che è umano: rumori, suoni, chiacchiere, futilità. Soltanto vuoti monumenti, nella finzione cinematografica, di ciò che un tempo era l’uomo e la sua immensa solitudine.
Quella che segue è la mia personale classifica dei Migliori Scenari di Desolazione mai rappresentati al cinema. Tutti fanno parte di pellicole a loro modo uniche e, perché no, anche poetiche. La classifica, quindi, è anche occasione per ripescare bellissimi titoli.
Ultima, doverosa premessa: come tutte le classifiche, anche questa è opinabile, per cui sentitevi liberi di dire la vostra o segnalare eventuali mancanze. Noterete l’assenza di due film nuovissimi, ma che dai rispettivi trailer hanno rivelato la loro natura apocalittica e la presenza di panorami di distruzione di tutto rispetto, mi sto ovviamente riferendo a The Book of Eli e The Road. Questi due titoli mancano perché non li ho ancora visti, non perché li considero inferiori rispetto a quelli citati.
Adesso, cominciamo:
10 – Silent Hill (2006, di Christophe Gans). L’incedere colmo di stupore e incertezza di Rose (Radha Mitchell) lungo le stradine di Silent Hill, la Silent Hill spettrale, ovattata, desolata, sotto una lugubre nevicata di ceneri di un incendio non ancora domato dopo decenni. Connubio tra mondo reale e reami dell’inconscio e dell’altrove. Atrocemente malinconico e disperato.
9 – 1997- Fuga da New York (1981, di John Carpenter). C’è un misto di nostalgia e sincera inquietudine nell’osservare l’aliante pilotato da Snake Plissken (Kurt Russell) avvicinarsi nel cielo notturno al familiare skyline di Manhattan (NY). A parte la presenza delle Twin Towers, ciò che colpisce di più è l’assenza totale di luci sui grattacieli. L’isola di Manhattan, infatti, è la terra di nessuno, il carcere di massima sicurezza lasciato a sé e ai detenuti che sono all’interno, sia sopra che sotto terra, alcuni dei quali regrediti ad uno stadio ferino e selvaggio.
8 – Day of the Dead (1985, di George A. Romero). L’inquietudine della fine del mondo mostrata sotto la calda luce del mattino che rivela il nulla degli esseri umani e il contrappasso che ha colpito i loro simboli più grandi, le città; ora divenute rifugio dei morti viventi che ne occupano stupidamente gli edifici, senza ragione, senza riflettere, comandate solo da riflessi condizionati. Particolarmente angosciante risulta vedere le palme lussureggianti contrapposte alle carcasse metalliche delle automobili abbandonate.
7 – I am Legend (2007, di Francis Lawrence). Times Square diviene territorio di caccia per Robert Neville (Will Smith), l’ultimo uomo in un mondo di mostri. New York appare riconquistata dalla natura, con ciuffi d’erba che spuntano dalla grigia pavimentazione stradale, i giardini un tempo curati ora intricati come selve, i palazzi oscure dimore per gli infetti. Unico neo, le creature che la abitano sono in cattiva CG e si vede.
6 – 28 Settimane dopo (2007, di Juan Carlos Fresnadillo). Londra abbandonata, devastata e deserta, ventotto settimane dopo la pandemia del virus della rabbia che ha devastato l’Inghilterra tramutando tutti i suoi abitanti in famelici e inarrestabili assassini. Il Distretto 1 è un timido tentativo di ricostruzione, mentre, tutt’intorno, si respira la fine nelle grandi panoramiche e nei dettagli delle piccole cose, il quotidiano.
5 – Occhi bianchi sul Pianeta Terra (1971, di Boris Sagal). Uno degli adattamenti, come il precedente n. 7, del romanzo di Richard Matheson “I am Legend”. Strade deserte senza l’ausilio di effetti speciali. La luce dell’alba, calda e ramata, accompagna Robert Neville (Charlton Heston), la leggenda, nelle sue scorribande lungo le arterie losangeline. La tecnica delle riprese, caratterizzata da primi piani stretti che si aprono in panoramiche vertiginose è da antologia.
4 – 2001 – Odissea nello Spazio (1968, di Stanley Kubrick). Unico excursus, ma inevitabile. Non occupa la prima posizione unicamente perché non strettamente inerente con la natura di questa classifica. Quel che è certo è che nessuna immagine, a mio avviso, incarna meglio il senso di solitudine, impotenza, ma allo stesso tempo di coscienza del proprio salto evolutivo in quanto specie che le memorabili sequenze di questo capolavoro assoluto della fantascienza. Dal punto di vista del genere, Giove è dietro l’angolo, se pensiamo alle inimmaginabili distanze siderali percorse dalle navi spaziali delle serie televisive più famose; ma qui, Giove sembra essere davvero il più remoto angolo della galassia, un luogo irraggiungibile dove l’uomo affronta la sua creatura, la macchina e dove determina il proprio destino.
3 – Dawn of the Dead (1978, di George A. Romero). Peter (Ken Foree) si allena giocando a tennis sul tetto del centro commerciale che è divenuto la sua casa, sua e degli altri due superstiti. Ha appena perso il suo collega e amico Roger (Scott H. Reiniger), anche lui trasformatosi in uno zombie. Quella pallina gialla cade dal tetto rimbalzando giù, sul mondo esterno, oramai completamente perduto. Non c’è speranza in quel cielo plumbeo che incornicia l’orizzonte, non c’è speranza per la società, oramai distrutta, in mano ai morti viventi che altro non sono che vuoti simulacri di esseri umani.
2 – Il Pianeta delle Scimmie (1968, di Franklin J. Schaffner). Di fronte a questa immagine c’è ben poco da aggiungere. Essa è storica. E’ il finale che svela la triste realtà all’astronauta George Taylor (Charlton Heston); invano convinto di essere giunto su un pianeta alieno dominato da scimmie intelligenti egli scopre di aver viaggiato nel futuro remoto della Terra, disseminata di spoglie vestigia di un glorioso, per quanto stolto, passato.
1 – 28 Giorni dopo (2002, di Danny Boyle). Eccoci qua. Ci siamo… il primo posto. Avrei potuto farmi condizionare dalla presenza di grandi, grandissimi nomi in questa classifica, ma la verità è che i minuti iniziali di questo film sono perfetti. Lasciate perdere il delirio del secondo tempo, i militari allupati e tutte le imperfezioni. Il risveglio di Jim (Cillian Murphy) in una Londra desolata è strabiliante e terrorizzante al tempo stesso. Scene incredibili girate tra le cinque e le sei di mattina, di tante mattine, per svuotare la capitale da ogni presenza umana. Oltre alla solitudine, complice anche il silenzio che accompagna le scene, tutta l’angoscia repressa, insieme alla rivelazione della verità trasudano dalle centinaia di bigliettini d’addio che Jim rinviene a Piccadilly Circus e dall’unico titolo che campeggia su un quotidiano (omaggio a Romero): “Evacuation!”
Grandioso.
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