Oggi mi sono ricordato che fingo di portare avanti un blog di cinema. Per giunta apprezzato.
Io che il cinema lo disprezzo. E ci litigo. Perché dopo è bello fare pace, come con la propria donna.
Il bianco e nero sa essere viscido e seducente e, un’inquadratura dopo, netto e ferale. Non è vero che la violenza in un film noir assume contorni vaghi e indefiniti, di distacco. Chi l’ha detto non ha visto i veri film noir.
Non conosce Fritz Lang.
Stiamo parlando di un uomo nato nel 1890. Milleottocentonovanta. Fa effetto, vero? Due secoli fa. Quale impronta può aver dato al cinema non è argomento di quest’articolo. Né mi azzardo ancora a parlare di Metropolis. Quello, è probabile, sarà l’articolo col quale chiuderò questo blog. Finché non lo vedrete apparire, vorrà dire che questo posto resterà vivo. Metropolis è troppo più grande di me, ancora.
Ma, nel 1954, l’era atomica, Lang era negli States a insegnare il cinema agli americani che, forse, non l’avrebbero mai imparato.
Lui inquadrava le stesse identiche cose, il background, che altri suoi contemporanei inquadravano: donne col grembiule, che ciondolavano ai fornelli con naturalezza e l’aria di chi è a proprio agio, angeli del focolare, mariti corpulenti e falliti, violenti, jukebox e diner notturni, e scorci di grattacieli. Ma la sua visione era e resta europea.
Un’immagine tra tutte, colpisce. La villetta dei coniugi Buckley, malandata, con lo steccato un tempo bianco e, sullo sfondo, grattacieli che spuntano nel mezzo del nulla, come cattedrali metropolitane.
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Il Kimono
Altra caratteristica che invidio agli anni cinquanta, è la possibilità di regalare dei kimono da camera alle proprie donne. Tale da renderle sexy come mai dopo. E Jeff Warren (Glenn Ford) torna dal Giappone, tronfio dell’appartenere alla superpotenza mondiale, e regala un kimono a una giovane donna che lui ha lasciato ancora ragazzina e che ha riscoperto adulta, la quale, ovvio, stravede per lui.
Glenn Ford non è Bogart. E per questo film è un difetto. Ha la faccia da buono. Non ci sta.
Però, c’è da aggiungere che qui è al servizio di Lang, il ché vuol dire suo schiavo. Di registi così ne nasce uno al secolo. Prima Lang, poi Kubrick. E adesso?
Un modo di fare cinema romantico, quando ancora questa parola possedeva un significato recondito di passione e sangue. Una carica ambigua e soffocante, da togliere il fiato.
Concentrazione assoluta sulla storia, sull’intreccio, dal quale non si evade di un millimentro, una volta essersi assicurati l’introduzione dei protagonisti.
E allora abbiamo Jeff Warren e i coniugi Buckley, Carl (Broderick Crawford) e Vicki (Gloria Grahame).
Carl è un omone sfaticato dedito all’alcool. Assomiglia vagamente a Robert Howard, lo scrittore. Collega di Warren che lavora come macchinista alla stazione. Violento e vendicativo. È riuscito a sposare, come capita spesso, una donna superiore a lui in tutto. Anche in astuzia. Soprattutto in ambizione.
Sulla via del fallimento Carl rincasa per consentire a Vicki il suo ingresso in scena.
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Entrata in Scena
Ed è, la sua, un’entrata di quelle che ci si immagina viste al cinema, in sala, in mezzo a un pubblico di militari urlanti. Gloria è sul divano, con una gamba alzata, mentre con la mano pesca delle arachidi da una coppa.
A vedere certe scene, così ovvie eppure così perfette, ci si rende conto di cosa abbiamo perso, noi spettatori. Ci si accorge che le dive, quelle vere, non esistono più.
Gloria Grahame, ambigua e scandalosa nella sua vita privata e sullo schermo. Dedita a storie macabre, al noir, alla passione.
La bellezza dei suoi personaggi deriva dall’essenza maligna che da essi traspare.
Un bel coraggio, non curarsi dell’opinione della gente, in un’epoca del genere, in cui tutto era opinione. Com’è anche adesso. L’unica differenza è che quel coraggio manca.
Eppure, Gloria Grahame era una disposta al sacrificio, sia professionale che privato. Disposta a essere vittima del cinema. Una vittima dalla pelle candida, diafana, che nessuno ha rivisto.
Cè una scena in particolare di Human Desire (La Bestia Umana), in cui Vicki viene picchiata dal marito geloso. Lei non è innocente, ha solo assecondato la richiesta di quello stesso marito di intercedere presso il suo datore di lavoro per fargli riottenere il posto, e la sua pregressa relazione extraconiugale.
Viene picchiata, e la regia non lesina sui particolari. Una scelta brutale che non può che scuotere. La violenza sulle donne è vergognosa. La scena in questione è sublime, alla luce del successivo sviluppo dell’intreccio. Ma, quel che più conta, è che a vederla ti fa star male. E ti fa incattivire e chiedere vendetta contro quell’uomo.
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Angelo
Vicki è personaggio ambiguo e manipolatore. Dall’aspetto innocente, è vero, ma abile tessitrice. In un certo senso è aderente alla sua controparte reale, Gloria Grahame. La quale si diceva disposta a prendere schiaffi da un uomo, ma si dimostrava parimenti decisa a raggiungere i propri obiettivi, per quanto folli o scandalosi alla morale coeva potessero apparire.
Lang è probabile abbia voluto sottolineare questa duplice anima sia del personaggio che dell’attrice chiamata a interpretarlo, tramite i continui giochi di luce che la seguono in ogni inquadratura.
Quando scende le scale, lei al buio, i gradini in chiaro. Quando fa il suo ingresso nella stanza dove Glenn Ford l’attende, con la luce alle spalle, di modo che lei risulti all’oscuro. Quando attende, fumando, con arabeschi ben visibile nell’aria attorno a lei mentre un fascio di luce le taglia il viso di sghembo, lasciandone metà, ancora una volta, al buio.
Vicki è una donna pericolosa, della quale ci si può innamorare perdutamente. E per la quale si può essere disposti a cedere alla follia.
A quel punto non sorprende la sua richiesta, torbida, fatta al suo amante. Da un angelo del male, ci si può aspettare anche questo. E si è disposti a tutto, pur di farla felice.
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Il Cinema
Sequenze ipercoreografiche, costruite neppure con mestiere, ma con volontà. Qui si trascende il semplice lavoro. Qui si è al cospetto del Cinema. Quello vero. Ragion per cui non un’inquadratura, non un singolo dettaglio mostrato è lasciato al caso. E si può assistere a scene fiume, come quella ambientata sul treno, in cui si gioca con gli spazi e la profondità e, manco a dirlo, con i contrasti tra luci e ombre, oppure quella ambientata nell’appartamento dei coniugi Buckley in cui, pur agendo su piani di distanza diversi, i soggetti e tutta la scenografia risultano messi a fuoco, nitidi. Visione assoluta.
Giù il cappello, signori. Questo è un tempo che non c’è più.
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