Mi imbatto in questo documentario: Holy Hell.
Parla di un guru dai molti nomi: Michel, Andreas, e altri e vari, fino all’ultimo, pittoresco di Dio-Re, in non so quale lingua esotica.
Cominciano a salirmi i brividi.
Perché la verità è che un culto, una setta, agli occhi di chi non è coinvolto, è sempre, assolutamente, palese.
Appena ci si imbatte in un’associazione spontanea di persone che, per quanto fingano spontaneità, non appaiono altro che come esaltati.
Fottuti esaltati.
Mi appassiono, a questo documentario, perché, diversamente dalle altre sette, e forse proprio per questo, la prima regola di questa setta, chiamata Buddhafield, oltre al nome particolarmente bizzarro, che sembra quasi il titolo di qualche album instriso di LSD degli anni Settanta, è di non essere una setta.
Una setta non è mai una setta. Fino a quando gli adepti, persone che alla setta hanno donato ogni cosa, scoprono di farne parte. E di aver subito degli abusi.
Psicologici e sessuali.
Così, una sorta di momento di lucidità. Come quando ci si scorda di prendere i tranquillanti. O si smette di bere.
In un gruppo è sempre il mondo esterno a non capire, non essere pronto, a minacciare (per il solo fatto di essere esterno alla cerchia) la sopravvivenza della cerchia stessa e del suo maestro.
Di differenze rispetto alle comuni sette, almeno all’apparenza, il Buddhafield ne ha tante.
Prima di tutto il suo leader, padre spirituale, guida e tutti gli altri ammennicoli e titoli vari che uno si mette addosso, quando si tratta di convincere altri di essere speciale. Un dio in terra, uno che la sa lunga, che ti porta su un vassoio d’argento la verità rivelata.
Voi lo seguireste un tizio seminudo, dato che per la maggior parte del tempo indossava solo slip da bagno, scarpe da tennis e calzettoni bianchi e un paio di ray-ban sul naso?
Vi aspettereste l’illuminazione da un tipo così?
Certo, ora che ne scrivo, da esterno, esattamente come voi che leggete, sembra una follia essere irretiti da un tipo del genere.
Eppure, anche io ho avuto esperienze in merito a sette e conventicole varie.
Dico subito che non riguardano me e nessuno dei miei familiari.
Da ragazzo, però, avevo un amico, la famiglia del quale e lui stesso entrarono a far parte di un gruppo.
Chiamiamolo gruppo.
Perché è da lì che tutto inizia.
Quando fai parte di un gruppo è tutto bello, fantastico, fino a quando la logica del gruppo non contrasta con quella del singolo. E tutta la droga della mente usata fino a quel momento, alla quale ci si lascia andare tramite, oserei dire, una volontaria sospensione dell’incredulità, comincia a fare male, quasi si stesse iniziando un processo di disintossicazione.
Il gruppo, a quel punto, si rivolge contro il singolo, per spezzare la sua innata individualità e ritornare nel limbo dell’esaltazione comune.
Guai a svegliarsi dai sogni. Guai, soprattutto, a svegliare chi non vuole essere svegliato.
Il mio amico e la sua famiglia ne uscirono distrutti.
Il gruppo li perseguitò per mesi, tramite telefonate, lettere minatorie, diffamazione. E non solo, il nucleo stesso della famiglia sopravvisse a stento.
Non vado oltre nei dettagli, perché sono persone innocenti.
I gruppi è questo che fanno. Sempre.
Distruggono.
Ed è sempre la stessa, la logica: la vita del gruppo vale di più di quella del singolo.
Aderire a un gruppo vuol dire rinunciare alle proprie idee, a vantaggio di quelle del gruppo, o del suo leader.
È ineluttabile.
Pare quasi incredibile, tornando a Holy Hell, che si possa sottostare alla personalità di un uomo narcisista, metrosessuale, che viveva come ne L’Uomo che volle farsi Re, un dio in terra riverito dai discepoli.
Ben strano, quando questo uomo-dio si scopre non essere altro che un aspirante attore, che potete vedere giusto per due secondi nel finale di Rosemary’s Baby, che guarda dritto in camera, lo stesso sguardo che ha usato, per oltre vent’anni, verso i suoi allievi.
Potete vederlo anche altrove, in altro tipo di film. Pornografici, per omosessuali.
Ebbene sì, un ex-attore porno, ex-ballerino, ex un po’ di tutto che, negli anni Ottanta, in California, creò questa sorta di setta non-setta, un harem di volenterosi discepoli che gli consentisse di vivere come un Dio.
Tra le altre eccentricità, oltre alla danza classica, che a guardare i filmati sembra di stare assistendo agli allenamenti di una sorta di Nureyev, col mascara e l’ombretto, che obbliga gente che non ha dimestichezza con la danza a effettuare complicate figure e volteggi spacciati come percorso spirituale.
Tra l’altro, questo Michel, Antoine, Andreas o come altro si vuol far chiamare, non aspira a diventare leader di una religione diffusa, ma ad avere attorno a sé un drappello di adoratori, tutti bellissimi, che gli possa garantire un tenore di vita incredibilmente elevato.
Cose che succedono nei gruppi.
Si mettono in comune i fondi, ci si aiuta, si è volenterosi.
E il maestro stabilisce con ognuno degli adepti un rapporto speciale. Da non rivelare agli altri, che non capirebbero.
Gruppi nei gruppi, frammentazione organizzata, divide et impera.
Per ventidue anni, il regista di Holy Hell è stato il regista del Buddhafield. Ha ripreso ogni manifestazione, ogni monito e insegnamento del maestro, ogni spettacolo teatrale allestito nel teatro privato del gruppo, fatto erigere per l’autocelebrazione di sé, laddove, appartentemente, il maestro aveva fallito col mondo esterno e tentava di ritagliarsi un pezzetto di realtà, completamente dissociata dal resto dell’universo, in cui essere il centro di tutto.
Coerente anche con ciò che più mi ha colpito del suo cosiddetto insegnamento, qualcosa come: non esiste né un futuro che ci angoscia, né un passato che ci opprime. Esiste solo il presente.
Una doppia dichiarazione, a ben guardare:
– di indifferenza verso chiunque altro se non se stessi. Perché noi singoli siamo presente sempre e soltanto a noi stessi, limitandoci a esistere.
– di negazione di ogni responsabilità.
Infatti, nessuno è mai obbligato a far parte di una setta, o di un gruppo. Ognuno è libero di andare e venire quando gli pare, salvo poi essere fatto oggetto di persecuzione allorquando, tramite gesti, parole, semplici espressioni del viso, si tradisce una volontà autonoma non coincidente con quella del gruppo. O branco.
O entrambe le cose.
Terribile.