Hobo with a Shotgun è un film particolare. Difficile da recensire.
Lo sapete già, mai stato amante del gore a tutti i costi o dell’exploitation. E in questo tipo di produzioni se ne vede a iosa. È un altro adattamento per il cinema di uno dei fake trailer che accompagnarono l’uscita di Grindhouse (2007). Come Machete, si è trovata anche in quello del Vagabondo, una gallina dalla uova d’oro. E si è deciso di produrne un film.
Trama esile esile, ma non è detto che sia un difetto. Film semplice, diretto, un western con tanto di giustiziere, mascherato però da realtà contemporanea, spiegazzata quanto basta, volutamente raffazzonata, caricata sulle spalle di un grandissimo attore e girata con mestiere invidiabile.
Si potrebbe persino sostenere che a Hobo with a Shotgun non manchi proprio nulla per diventare un piccolo gioiellino.
Ci sono trovate geniali, scene di una ultra-violenza catartica, accompagnate da disco-music anni ’70, che strappano risate paradossali e, alla fin fine, tutto quell’eccesso di budella e splatter non disturba per niente, accettato il meccanismo di cinema fatto di sangue & mmerda, dove le cose non devono funzionare per forza secondo logica comune, ma secondo la logica dello spettacolo, anzi della messinscena pura e semplice.
E, dopo un po’ che lo si sta guardando, ci si chiede se non si sia capitati all’interno di un videogioco anni ’80 (idea suggerita da un’apposita sequenza) di quelli alla Double Dragon, dove si combatteva fino alla morte, gli schieramenti erano netti, senza ombre, e i cattivi terribili e felici di esserlo. Insomma, sembrerebbe una pacchia.
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[c’è qualche anticipazione]
C’è Rutger Hauer, Hobo, il Vagabondo. Fa piacere vedere vedere un attore coi controcoglioni tornare sullo schermo; faccia rugosa, barbetta bianca, un personaggio che inizia osservando, in un contesto ipercromatico, la periferia di una città chimata Hope Town, ma presto ribattezzata dai signori del crimine che la controllano Scum Town (Città della Feccia) dove si assiste a ogni genere di sopruso e violenza, a qualsiasi ora, a ogni angolo; dov’è normale che Drake, il boss, decida di inscenare un gioco che consiste nello staccare la testa del proprio fratello, attaccata tramite corda e filo spinato a un fuoristrada, e di costringere i passanti a godersi lo spettacolo. Sangue a cascata, simile, nelle dovute proporzioni, al pozzo de L’Armata delle Tenebre, modello geyser.
L’idea che la realtà ivi rappresentata sia figlia di una certo tipo di cinema fatto di motoseghe, trapani e sangue che scorre a fiumi, che non guarda al realismo è chiara. Non ci possono essere scusanti a riguardo, da parte dello spettatore disattento. È così fin dal (fake) trailer.
Ci sono, però, meno trucchetti ad alterare la resa della pellicola, a parte la saturazione, che dopo scompare. Titoli di testa gialli che richiamano gli spaghetti western e l’intreccio che non si discosta da quello del vendicatore, lo straniero senza nome che si richiama, nel suo agire, a una storiella sugli orsi e sul loro gusto per la carne umana, una volta che l’hanno assaggiata. Suggestivo.
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Il Vagabondo, per salvare una prostituta (Molly Dunsworth) dalla morte, si tramuta in furia, cambiando la destinazione dei 49.99 dollari che egli si appresta a spendere. Con quelli, guadagnati a caro prezzo, assecondando le folli richieste di un sadico cineasta che gli ha fatto masticare pezzi di vetro, Hobo avrebbe voluto acquistare una falciatrice, per potersi finalmente dedicare a un lavoro onesto, oltre che a un sogno; ma finisce invece per comprare un fucile a pompa, iniziando così ad amministrare la giustizia in una città corrotta fino al midollo, dove al cocaina cade come una nevicata.
Geniali i cattivi di questo film, con look bianco-nero, occhiali scuri, capelli afflitti da lacca e gel, al volante di una Bricklin, auto canadese degli anni ’70. Costoro, i fratelli Slick (Gregory Smith) e Ivan (Nick Bateman) e il loro paparino Drake (Brian Downey) regalano momenti spassosi, pur in scene di una crudeltà mai vista; a base di mazze da baseball decorate con decine di lamette da barba, sventramenti assortiti, pattini di metallo usati per squarciare addomi e toraci, stile mezzelune autoptiche. E infine, un lanciafiamme in uno scuolabus, accompagnato da The Trammps e la loro Disco Inferno.
Sembra un’aberrazione della natura, ma vi garantisco che si ride. E molto.
Per concludere con due guerrieri corazzati e impiccagioni ospedaliere.
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E allora, a cosa siamo di fronte? Per i cultori del genere potrebbe trattarsi di capolavoro. È fuor di dubbio. Migliore anche di Machete.
Per i non cultori, ma semplici spettatori, quale io sono, la verità è che, nonostante il mestiere e gli attori, il film non è tanto spassoso. Non da soddisfare un’esigenza di divertimento che uno si aspetta tardi soltanto ad arrivare, ma che non giunge più.
I massacri, gli ettolitri ematici versati, l’utilizzo di cadaveri e budella a mo’ di travestimento, le follie che vogliono far iniziare la caccia ai barboni, la donna alla quale viene segato il collo, ma che viene aggiustata (fixed) al prontosoccorso lasciano, tutto sommato, indifferenti. Essendo talmente surreali da non arrecare neppure disturbo o disgusto. Dubito, però, che da noi lo vedremo mai in prima serata, dato l’eccesso splatteroso.
È un altro spettacolo estetico. Un bell’esercizio di stile che non delude chi è in cerca di questo tipo di cinema. Ma a me, com’è stato per Machete, non ha fatto sorridere molto. E neppure incazzarmi. E forse questo è il punto. Un film che non incontra i miei gusti, ma che proprio non si può dire sia fatto male.
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