Com’era quel discorso? Se Hanna fosse o meno un film di genere… Mi pare fosse quello. Be’, la risposta è che non me ne frega niente.
È un buon film, in barba a un nuovo partito, quello degli “Oh! Ero convinto di vedere un action e invece, cos’è? Gne gne gne”. Riguardo questo dobbiamo necessariamente trovare un acronimo, lo ammetto. Riguardo Hanna è presto per dire se sia memorabile o no, mi ha colpito in certe sequenze, annoiato in altre e in altre ancora, poche per fortuna, deluso. Però si fa guardare e costituisce un’alternativa al sordido sottobosco di filmacci 3D, coccolosi e da guardare al cinema con le facce sorridenti, come tanti piccoli Barbie e Ken, plastificati e zitti.
Prima volta, gli altri me li sono persi tutti con gran piacere, che vedo interprete principale la ragazzina dal nome impronunciabile, Saoirse Ronan. Eh, be’, direi che ci sta. È brava. E Hanna, personaggio e film, si reggono su di lei. D’altronde la trama non è niente di ché, anzi, s’è sentita così tante volte, la storia degli esperimenti genetici sui bambini per fare i super-soldatini che sta diventando, con le dovute pinze, un po’ come o’ vampire ‘nnammurate, una specie di cliché sul quale si daranno presto da fare i neo-melodici.
Però, come ho più volte sostenuto, anche il cliché più consumato può essere apprezzabile. Dipende da pochi fattori. Il principale è il modo di narrare la storia. Dammene uno non banale e sarò zuccheroso e disponibile (nei limiti).
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Strano intreccio, costruito sulla vendetta privata, innestato nell’ambiente dello spionaggio, e che strizza l’occhio al romanzo di formazione e anche all’epopea del buon selvaggio (che scopre la civiltà) e in maggiore misura al fiabesco. Certi passaggi, certe inquadrature, certi primi piani insistiti, fanno dimenticare che la ragazzina è una tosta, capace di sgozzarti e non provare niente, e guardano alla favola; non solo per l’aperto e avaro omaggio ai Fratelli Grimm… qui si tratta di Alice che cade nella tana del Bianconiglio e scopre le meraviglie del nostro quotidiano, luci al neon e bollitori per l’acqua.
Certo, un Alice senza il vestitino svolazzante e ipercinetica, a tratti androgina, che esegue una missione e allo stesso tempo esplora il mondo con ingenuità e diffidenza.
Spia che non è mai rientrata dall’ultima missione, possibile minaccia alla sicurezza nazionale, Erik (Eric Bana, complimenti per la fantasia) vive nella foresta insieme alla figlia Hanna (Saoirse Ronan) istruendola a cacciare, sopravvivere, lottare, sparare e bombardandole la mente con lo scibile umano, preso e spiattellato lì direttamente dall’enciclopedia. Tutta teoria e niente pratica. Hanna è docile, forte, intelligente. È anche una spugna, assorbe qualsiasi concetto, ma non ne ha esperienza diretta. Tant’è che sogna finali alternativi per le sue storie, ma non si perde in inutili fantasticherie, è più attratta, e parimenti sconvolta, dal vivere direttamente ciò che vagheggia. Basta il rombo di un aereo che passa veloce per farla urlare di gioia.
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Da questo eremo, che è anche Eden, Hanna fugge via, lasciandosi prendere. Lei è un essere puro, ma è stata addestrata a macchiarsi di sangue.
E da qui in poi il film si trasforma, mimetizzandosi nell’action, anzi quasi imitandolo senza eccessi, come volesse guardarlo da lontano, incerto, e si concentra sul percorso che la protagonista fa. Hanna compie o crede di compiere la sua missione primaria, la vendetta, nei primissimi minuti, lo fa versando lacrime autentiche, ma non lasciandosi sopraffare dai sentimenti. Tutto il resto è scoperta, dell’elettricità che muove il mondo, del contatto fisico, degli affetti familiari che lei, forse, ha solo intuito studiando, ma che non ha mai né visto né sperimentato.
La critica che si può muovere è proprio verso le scene d’azione, che dovrebbero essere non il fulcro, ma uno dei motivi del film. Scelta poco saggia quella di adottare il rallentatore in alcune di esse, quelle decisive e farle accompagnare da una musica techno bella sì (è dei Chemical Brothers, vorrei vedere…), ma che toglie solennità a tutto: al significato, alla resa, al sangue. Le chiazze rosse, i puntini che “ornano” il volto di Hanna, come fosse ancora una volta una caccia al cervo, non hanno spessore. Sono solo macchie dietro cui, causa la musica, non c’è una vita che s’è spenta per sempre, per quanto lontana fosse dagli affetti, parchi, della ragazza, ma il nulla.
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A quanto pare Hanna è l’ultima della sua specie, o la sola, o quel che è, risultato dell’esperimento di cui sopra. Quest’aspetto della possibile estinzione, più che speranza, che ella rappresenta è ben sottolineato dal parco abbandonato, adornato da statue di plastica di animali scomparsi da milioni di anni: dinosauri, mammut. Hanna è elemento estraneo a questo mondo. Può comprenderne gli schemi, applicarli con fatica, ma non ne farà mai parte: le scazzottate paterne sono esempio adeguato. Sentimento filiale che tuttavia non impedisce di esercitare forza fisica contro quel genitore che è stato innanzitutto il suo mentore.
Eric Bana è discreto, il suo ruolo non gli offre opportunità di strafare, e così resta nei binari, rivelandosi una sorpresa nei combattimenti, rovinati come detto dal binomio musica-rallentatore.
Cate Blanchett è la nemesi di padre e figlia. Obiettivo della vendetta, nonché caratterizzata da sfumature malvage talmente evidenti da risultare stucchevoli, a meno che non si tratti di accentuazione volontaria dettata da quello stesso elemento fiabesco che permea l’intero svolgersi degli eventi. In questo senso sarebbe la Strega dell’Est * o qualcosa di simile.
Piccolo errore nella sequenza iniziale, durante la caccia al cervo, forse lasciato correre in virtù del richiamo a quella stessa scena nei minuti finali, o per quel senso di stolida virtù che si vuole, da sempre, associare al cacciatore; residuo di suggestioni sciamaniche che fanno tanto figo, ma che non aiutano a portare a casa la preda.
* Il Mago di Oz
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