Per quanto mi riguarda l’unico film della serie. Tutto l’insieme degli altri che ne sono scaturiti tra seguiti, remake e reboot, ritorni alle origini e vent’anni dopo (in stile Sapore di Mare di vanziniana memoria) è tutta “materia organica anfibia, comunemente detta mer*a!” (cit.).
Sceneggiato e diretto da John Carpenter, che ne compose il tema musicale così piacevolmente inquietante, e Debra Hill. E’ tutto giocato sull’identità della maschera, sulle origini assolute del male, non escludendo l’ipotesi del sovrannaturale.
Michael Myers, bambino, indossa la sua maschera e il suo costume, il 31 Ottobre, per assassinare la sorella, senza alcun motivo apparente se non un sottile riferimento edipico; la vittima, ha, infatti, appena consumato un rapporto con il suo fidanzato.
Rinchiuso in un manicomio criminale, seguito dalle costanti e inutili cure del Dott. Loomis, l’ottimo Donald Pleasence, Myers evade, dopo aver atteso per vent’anni in un mutismo e una solitudine impenetrabili, proprio alla vigilia di Halloween, per tornare nella sua città d’origine e commettere nuovamente crimini efferati.
Halloween è la festa del dolcetto o scherzetto, del piacevole e confortante spavento, delle canzoncine macabre cantate in coro dai bambini, dei racconti dell’orrore narrati a mezza voce, sussurrati nella penombra delle camerette nei cui angoli bui si celano i mostri…
Carpenter tinse questa festività popolare, nel 1978, di un piacevole color rosso sangue, attraverso i crimini insensati di un essere sostanzialmente privo di indentità, anonimo come anonima è la sua maschera bianca.
Sue vittime le donne, in un evidente riferimento alla possibile natura seriale di tali omicidi.
Avversari e antagonisti di Michael Myers, il già citato Dott. Loomis e Laurie (Jamie Lee Curtis) una giovane studentessa, suo malgrado finita nelle mire del maniaco omicida.
La trama del film è tutta qui, lineare e quasi scontata, se non fosse per le sfumature che Carpenter, sapiente artigiano (come il suo nome suggerisce) del cinema riesce a costruire, a cominciare dalle parole di Donald Pleasence: “Michael Myers è il male, nient’altro che questo. E’ il male.”.
L’assassino è annichilito, privo di personalità, in un annullamento totale della teoria che vorrebbe i criminali, vittime, a loro volta, delle ingiustizie della società. Michael Myers è vuoto, eccetto quando indossa la sua maschera che, in qualche strano modo, riesce a dare scopo e “spirito” alla sua esistenza. Lo scopo è uccidere.
Ma non basta. Alla fine, dopo i vari tentativi prima di Loomis e successivamente di Laurie di avere ragione del mostro, diviene chiaro che, stranamente, l’assassino non può morire, quasi che quella maschera non abbia trasfigurato solo la sua identità, ma il suo vero essere rendendolo, di fatto, leggenda.
La purezza spigolosa di questo film non poteva e non doveva essere contaminata dalla porcherie che ne sono seguite. Se si cominciasse a pensare seriamente al cinema come a una forma d’arte, si comincerebbe anche a ragionare sul fatto che, alcuni film, come tutte le opere d’arte, non vogliono rimaneggiamenti e riedizioni idiote, ma sono perfetti così come sono e nell’epoca in cui sono stati concepiti e realizzati. Trasportare la favola di Cappuccetto Rosso in una moderna metropoli, in luogo della foresta buia, trasformare il lupo cattivo in un maniaco e il cacciatore in un agguerrito detective della squadra omidici può essere interessante, sì, persino divertente come operazione narrativa, ma siamo sicuri che sia anche magico?
Io non lo credo. Il cinema non ha bisogno di riedizioni, né tanto meno di essere attualizzato per far sì che giovani mentecatti si avvicinino a prodotti che, altrimenti, ignorerebbero perché non confacenti agli esigenti standard di gradimento odierni. Il remake è un circolo vizioso e idiota che sottrae la poesia per dare ai porci il pastone di cui nutrirsi.