Ci siamo: episodio 3.
E le cose che restano sono, caso strano, sempre 3.
1) Tyrion Lannister confinato in una dimensione “domestica”: Mastro del Conio. O Tesoriere. Che non sa dove prendere i soldi, e nel frattempo ricompensa i suoi alleati, insospettabili Rocco Siffredi, con tre meretrici per uno, che gliela danno gratis.
Nominato al nuovo incarico dal paparino Tywin, in una riunione a corte che dalla disposizione delle sedie sa di importanza politica e sfida implicita.
2) I cagnoloni attempati che scondinzolano al seguito di Daenerys, che compra ottomila soldati al costo di un drago: il più grosso.
3) le frecce infuocate scagliate sulla barca funebre che la mancano, una dopo l’altra, finché…
E poi… oh sì, ci sarebbe il finale, che strapazza un po’ Jaime Lannister, e l’esplosione di potenza irish punk, sulla canzone finale, che ha scatenato meraviglia e polemiche. Immancabili.
E che volete che vi dica?
La scelta è seguite una storia già scritta, tradurla in una sceneggiatura, approvata da George R.R. Martin, e lasciarsi trasportare da essa. Che si tratti di battaglie, di intrighi di corte, di vita quotidiana. Ciascuno preferisce la sua, vive la sua, essendo personaggi così ben costruiti.
Nessuna traccia di Re Joffrey, se non nelle bestemmie di Stannis Baratheon, rifugiato su un’isola sperduta. Meglio così.
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La meraviglia è che non si fatica a seguire le innumerevoli storie. C’è spazio, di episodio in episodio, per (quasi) tutti, pure per Theon Greyjoy, che quasi finisce violentato da un treno, nel suo tentativo di fuga.
Ora che ci penso, una strana strana sfumatura sottende a tutto l’episodio, sessualità, brama di potere, violenza sono i temi, mascherati e non. Tensione palpabile nel confronto tra Daenerys e Kraznys mo Nakloz di Astapor, esplicita in quello già menzionato di Theon, e ancora più esplicita nella parte finale, dedicata al lungo viaggio di ritorno verso nord di Jaime Lannister e Brienne, di nuovo prigionieri.
E sono questi temi, così assenti dal patrimonio fantasy classico, a fare la differenza. A rendere questa serie, e i suoi protagonisti così carnali e reali, così apprezzata.
E tutti quelli che a Game of Thrones ci lavorano lo sanno bene. Si legge nei volti degli attori, rilassati, ormai padroni dei loro ruoli. Nel volto di Cersei (Lena Headey) che guarda tutti gli strani uomini che aspirano a un briciolo di potere seduti alla tavola del padre Tywin, sentendosi, forse essendo, superiore. Per sangue, bellezza, opportunismo. Minacciata solo dalla lunga ombra del folletto.
Ma non è solo questo: è la consapevolezza, in quanto attori, di essere parte di un lavoro eccellente.
E allora, detentori di questo potere, fiducioso che non deluderanno mai gli spettatori, si possono persino dedicare, sul dramma finale dell’ultimissima scena, questa musica scanzonata, pregna di sicurezza, di orgoglio, che è un riarrangiamento della stessa canzone “The Bear and the Maiden Fair” cantata dai soldati, lungo il cammino.
L’impressione che se ne ricava è una: siamo fighi e lo sappiamo.
Continuate, ragazzi.