Fantasmi da Marte è un film peculiare. È esempio importante della teoria della osmosi delle idee hollywoodiane, la quale vuole che queste ultime, frutto di menti brillanti, circolino liberamente attraverso l’etere, colpendo le sinapsi di creativi di ugual valore. Facciamo un film ambientato su Marte! Il caso volle, infatti, che tra il 2000 e il 2001 fossero sfornate ben tre missioni sul pianeta rosso: “Mission To Mars” (2000), “Pianeta Rosso” (2000) e “Fantasmi da Marte” (“Ghosts of Mars”, 2001). Questo desiderio mai pago di una presenza umana sul quarto pianeta avrebbe conosciuto giusta soddisfazione nel 2004, con l’uscita di “Doom 3” della Id Software. Ancora oggi insuperato e insuperabile rappresentazione marziana a stampo demoniaco.
Film peculiare, dicevo, anche per la sua pretesa essenza spaghetti-western che vuol passare per fantascienza.
Ultimo film di John Carpenter fino a qualche mese fa, quando è stato annunciato l’arrivo del suo prossimo lavoro “The Ward”. Marte, individuato e inscenato nel deserto del New Mexico, è costato caro al maestro. Una crisi creativa dalla quale si spera possa riprendersi.
Produzione a basso costo. Come sempre. C’è, tra gli altri, Ice Cube, un tizio che si crede davvero un duro. E che non riesce a spaventare proprio nessuno. Siamo sinceri: chi ha paura di Ice Cube? È come era Verdone in “Troppo Forte”: ha la faccia da buono. Si dovrebbe rassegnare. E invece niente. Insiste e naufraga sempre più.
E questa presenza, la star ingombrante e amo da pesca d’altura per il pubblico, è indice di novità. Carpenter se ne era sempre fregato di questi giochetti.
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Matriarcato
Il suo resta un grande nome. Un nome bastante a radunare una troupe di 400 persone nel bel mezzo del nulla, il deserto del New Mexico, e scegliere, senza incontrare opposizione di sorta, di girare, così come fu per “1997: Fuga da New York”, esclusivamente di notte. Scelta che giova alla fotografia.
Sabbia e rocce tinteggiate di rosso, colore rafforzato dai faretti a luce calda, per la location da vecchio/nuovo West. Una cittadina da “dopo-bomba” figlia, nell’economia [tanta] dell’ambientazione, di un colonialismo minerario terrestre su Marte gestito o imposto da un sedicente Matriarcato.
Le donne sono al potere nell’anno 2176. Una trasformazione culturale che ha toccato anche la religione, se si deve prendere per buono l’accenno fatto da Desolazione Williams (Ice Cube) su una Grande Madre, una profetessa o una figura mistica fondamentale.
Tutti i posti di potere sono occupati da donne, con gli uomini relegati in posizioni subalterne e di fatica (i minatori di Shining Canyon): Helena Braddock (Pam Grier), comandante della missione di recupero e scorta, Melanie Ballard (Natasha Henstridge), tenente, e Jericho Butler (Jason Statham) sergente e alfiere di una razza in via d’estinzione, gli “stalloni”, altrimenti detti gli uomini che vanno con le donne.
Ambientazione interessante, anche e soprattutto per l’ampia prospettiva che lascia il finale aperto, se non fosse a dir poco gettata da parte, per privilegiare la più classica trama che vede pochi protagonisti alle prese con una dilagante pandemia che genera violenza e un insormontabile numero di nemici.
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La Valle dei Re
Scavi archeologici su Marte hanno portato alla luce un antico complesso di origine aliena dal quale è scaturita una forma virale intelligente, a cui ci si riferisce come ai “fantasmi” che, preso possesso dei corpi degli invasori (i terrestri), li tramuta in guerrieri selvaggi, di aspetto vagamente metallaro, dediti ad ogni genere di massacri, in una sorta di guerra totale contro qualunque essere vivente percepito come invasore della perenne tranquillità marziana.
Anche quest’aspetto non originalissimo viene affrontato con leggerezza e superficialità inusitate: le entità invisibili, ma visibili quando assumono l’aspetto di gigantesche tempeste di polvere, provengono da un corridoio spoglio. E questo è quanto. I fasti di una civiltà aliena evidentemente progredita perdono il confronto con una qualsiasi tomba egizia nella Valle dei Re, queste ultime sì ancora maestose dopo migliaia di anni.
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Il confine tra poliziotto e criminale
Niente di originale, se non quell’accenno di società matriarcale mai sviluppato. E, a parte il treno [modellino in scala come la mongolfiera a bordo della quale l’archeologa fugge] che scorazza placido tra le desertiche montagne marziane, neppure le armi appartengono al futuro. Sono care e sempre efficienti armi da fuoco automatiche, coltelli, spade e asce (non si sa come, né perché, fabbricate dagli “infetti”) e sempre classici esplosivi. Il vecchio e selvaggio West, con le sue città che nascevano e morivano lungo la ferrovia costruita dai cinesi, insieme alle miniere d’argento o di carbone, con l’esaurirsi delle rispettive vene, costituite da una strada e da due file di edifici, pretende il suo tributo, persino nelle parole dei protagonisti: “È molto sottile oggi il confine che separa poliziotti e criminali” dichiara, con aria da saccente moralista al contrario, un irritante Ice Cube, perfettamente rasato e stirato con l’appretto, pur essendo un pericoloso assassino e fuorilegge che ha trascorso diverse notti in cella. Un confine sottile oggi, su Marte, come sul finire del XIX secolo, dove, tra sceriffi federali e bounty killers, c’era di mezzo solo una stella di latta a cinque punte. Oltremodo ridicoli gli sgherri di Desolazione Williams, numerati dall’uno al tre, ed anche eccezionalmente ritardati.
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La pillola della felicità
Melanie Ballard è un tenente di polizia, nonché una tossica. Secondo aspetto interessante, dopo l’ambientazione generale, ma trascurato, come tutto il resto. Barcamenandosi tra i tentativi di approccio degni di un orango nella stagione degli amori di Jericho e la catastrofe che incombe sulla cittadina e sull’intero pianeta, alla fine è la pillolina della felicità la fonte di ogni salvezza. È insieme fuga, speranza e consolazione. La pillola che espelle i puri marziani idealisti, che ricaccia i demoni all’inferno, o che almeno, come un pentacolo, li tiene alla larga.
Ice Cube e la sua faccia da buono, irrimediabile. Pam Grier, che non è l’ultima arrivata, relegata a un ruolo che definire marginale e inconsistente è un complimento, e una serie di faccette buffe, tra nemici e alleati, di cui non si sente la mancanza. Già dopo una mezz’oretta di visione, anzi, si spera di vederne le teste ficcate sui pali. Big Daddy Mars (Richard Cetrone) [giuro che è accreditato con questo nomignolo] il capo dei “marziani”, ce la mette tutta per uscire dall’anonimato, prestandosi anche a filmare una scena in cui finisce avvolto dalle fiamme, ma invano. Non sono le sue urla, quelle che ti rimangono in testa. Resta, invece, solo un gran silenzio.
L’introspezione psicologica non è mai stata caratteristica carpenteriana, ma neppure la sciatteria. Cosa, quest’ultima, che qui abbonda in un film in perenne bilico tra commedia, per i toni leggeri dei siparietti e gli scontri non troppo cruenti e fantascienza adulta che ha dimenticato di essere tale.
Come le esplosioni accompagnate da attori che volano grazie alle pedane meccaniche, che forniscono loro lo slancio. Capite? Volano, anziché esplodere e smembrarsi. Se questa è stata la scelta, c’è poco da aggiungere.
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