Underground

Dune di Jodorowsky

Durante queste vacanze di Natale sono capitate un po’ di cose, imprevedibili. Tra le tante, scopro che a Taranto c’è un insospettabile nucleo di fan di Alejandro Jodorowsky.
Tanti da riempire un cinema e far sistemare quattro sedie in più per accoglierli tutti. Roba illegale, credo. Questo qualche anno fa, 2013 o giù di lì. Fan entusiasti.
Jodorowsky era quello che decise di fare un film su Dune senza aver letto Herbert, perché sì. A dir la verità, tra tutti quelli coinvolti a vario titolo nel progetto, l’unica che pareva conoscere Herbert e il suo Dune era Amanda Lear, la fidanzata di Dalì.
Che storia meravigliosa e incosciente.

Il palazzo dell’imperatore di Chris Foss, a detta sua realizzabile nella realtà.

Erano anni eccezionali, quelli, gli anni Settanta. Ma anche terribili, perché se due personaggi, Jodorowsky e Seydoux potevano, sull’onda dell’entusiasmo, dei soldi (fatti con La Montagna Sacra) e dell’alcool, decidere rispettivamente di girare e produrre Dune senza sapere esattamente di cosa si trattasse, erano quegli stessi anni che stavano trasformando l’Industria nel terreno di caccia dei ragionieri.

Avrebbero vinto gli impiegati, decenni più tardi, tanto da annullare qualunque pretesa artistica in nome del rientro economico.
Uno scenario di una tristezza devastante che ben si può vedere nel volto incazzato e parimenti malinconico del vecchio Jodorowsky, 88 anni, che da quegli stessi ragionieri è stato “ammazzato” insieme al suo Dune.

Oggi è l’impero dei ragionieri. Hanno molti difensori, agguerriti, a loro volta ragionieri falliti. Quindi questo articolo scorrerà dimenticato come l’idea seminale che voleva realizzare Dune e che non c’è mai riuscita.
L’ambizione, dice Jodorowsky, è quella cosa che ti fa cercare l’anima durante la vita. Ogni artista deve essere ambizioso, ogni artista deve poter pensare che col proprio film cambierà la percezione dell’uomo. L’arte, ancora, era l’unica cosa per la quale valesse la pena vivere.

Altri tempi.

Ora, vaglielo a spiegare, ai ragionieri, come quel “cambiare la percezione dell’uomo” si possa tradurre in un ritorno economico.
Impossibile.
Eppure, ci si prova ancora.

Immaginate Refn, quel Nicolas Windig Refn, a cena da Jodorowsky, a cui l’ospite chiede, arrivati al caffè, alle due di notte: “Vorresti vedere Dune?”.
“Non sapevo che l’avessi girato…”
Ecco, Jodorowsky custodisce nella sua casa lo storyboard di Dune, che consta di circa TREMILA disegni originali di Moebius. Esistono solo due copie di questo tomo leggendario, più quelle che gli Studios si sono tenuti strette, onde poi spulciarle alla bisogna, quando era necessario inventarsi qualche scena in più, di quelle speciali, per altri film divenuti celebri a loro volta.
Quella tra Jodorowsky e Refn fu una scena alla Mad Max, no, non Fury Road, ma Thunderdome, quando i ragazzi perduti illustrano a Max la storia del mondo di ieri.
Refn sfoglia le pagine, che Moebius aveva disegnato “neanche fosse un computer umano, un mentat”, con una velocità mostruosa, e quei disegni, insieme a quelli di Chris Foss e Dan O’Bannon, uniti alla narrazione di “Jodo”, gli hanno reso possibile vederselo il film.
Fottutamente meraviglioso.

Il più importante film mai realizzato. Perché non è stato mai fatto, ma su quel film c’è chi ci ha scommesso la vita, come quel tale che forse ricorderete, Dan O’Bannon, che mollò tutto, vendette anche la sua macchina, per trasferirsi a Parigi, ché gliel’aveva chiesto Jodorowsky.

A Jodorowsky non si diceva di no. Uno s’immaginava quel folle da sé stesso ritratto nei suoi film, e invece ci si trovava davanti un gentleman ben vestito, con un taglio alla moda e una bustina ricavata con fogli di giornale arrotolati in cui c’era la “roba migliore su piazza”. E lui te la dava e tu vedevi la sua faccia esplodere in un mandala coloratissimo ed eri suo, eri uno dei suoi “guerrieri”, chiamati a realizzare il più importante film della storia dell’uomo. Oppure ti ingozzavi di vitamina E, come David Carradine.

Avrebbe dovuto esserci Dalì, convinto dopo una serie di colloqui surreali a tappe, nelle principali città d’Europa. Convinto perché sì, lui sarebbe stato l’Imperatore, e sarebbe stato l’attore più pagato di tutti i tempi: centomila dollari al minuto.

Avrebbe dovuto recitare tra i tre e i cinque minuti, a detta di Jodorowsky. Lui sul set insieme a una giraffa. Una giraffa in fiamme.

E Orson Welles, che divorava il mondo intero, convinto perché sul set ci sarebbe stato lo stesso cuoco parigino da lui preferito.
Un Barone Harkonnen spietato, sadico, asserragliato nella rocca a sua immagine e somiglianza, “rifugiato in sé stesso”, nel proprio ego, e disegnato da quel Giger che avrebbe poi partorito lo xenomorfo.

Jodorowsky era uno di quelli che ti mettevi a guardare un suo film e dopo un po’ compariva uno che assomigliava a Gesù Cristo che si metteva a cagare uno stronzo d’oro.
Ecco, facile che un ragioniere possa restare, come dire, traumatizzato, ad avere a che fare con una personalità così abnorme. Così fuori dell’ordinario, così maledettamente affascinante che ancora oggi lo vedi parlare del suo Dune, stringere quel libraccio di migliaia di pagine da cui hanno rubato a più non posso i più celebri registi, e ti pare davvero di vedere Paul Atreides che viene generato da una goccia di sangue del Duca Leto, in un atto d’amore spirituale per un cinema che, oggi, sembra più lontano che mai.
Oggi, nella valle di lacrime dei ragionieri.

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