C’è questo remake, firmato da Spike Lee, regista che non ammiro particolarmente, che negli ultimi tempi sembra più bravo a dirigere polemiche sterili che film, ma che tuttavia sono curioso di vedere: Oldboy.
Perché un remake?
Non c’è una risposta a questa domanda.
Non dopo quello che abbiamo visto nell’ultimo articolo, circa la serie televisiva clonata tre volte nel giro di due anni.
La volontà del remake fa parte del paradosso dell’era della comunicazione globale.
Un regista coreano, Chan-wook Park, dirige nel 2003 un capolavoro, Oldboy, tratto da un fumetto. Successo di critica, Oldboy diventa una sorta di Santo Graal nella ristretta cerchia degli appassionati di temi forti, che poi sono gli stessi archetipi del racconto su cui si fonda la cultura occidentale, ma che, per pudore/ipocrisia/incompetenza e quant’altro, sono stati dimenticati con arroganza dagli autori nostrani, troppo preoccupati di ottenere il massimo guadagno col minimo sforzo emotivo da parte degli spettatori, e che ci vengono insegnati nuovamente dal cinema asiatico, che invece di questi pudori, ringraziando Dio, non ne ha ancora.
Ma…
Per qualche ragione, dicevo, nell’era della globalizzazione, il mercato globale non basta. Per cui non si pensa a faticare per diffondere un film, già vecchio di dieci anni (!), perché il pubblico possa goderne.
Si preferisce direttamente rifarlo. E diffondere a tutto spiano il remake anziché l’originale.
Perché il pubblico americano (e non solo) è pigro, e non vuole vedere strane facce esotiche sullo schermo. Meglio un Josh Brolin e una Elizabeth Olsen. Meglio ancora se diretti da Spike Lee.
Le domande, i timori legati a questo remake sono fortissimi. Proprio a causa della delicatezza dei temi su cui Oldboy si basa:
a) vendetta
b) incesto
c) natura della colpa
d) la fama (nella sua distorsione mitica: il pettegolezzo)
e) il rimorso
Oldboy, del 2003, interpretato da Min-sik Choi, Ji-tae Yu e Hye-jeong Kang è non solo lezione di cinema, nelle brillanti trovate registiche e nella celeberrima “scena del corridoio”, girata in tre giorni senza l’ausilio di stunt, esso è, soprattutto, lezione di narrativa.
È la tragedia, scandita in atti, che viene mostrata a partire dall’effetto ultimo, ossia il castigo che si abbatte sull’ignaro protagonista, Dae-su Oh, che viene punito dapprima attraverso la carcerazione – privare qualcuno della propria libertà personale è privarlo di orizzonte, di prospettiva, della capacità di orchestrare il proprio futuro attraverso la pianificazione – poi, improvvisamente rilasciato, costretto a cercare lui stesso il motivo della punizione che ha patito, allo stesso tempo essendo indotto, sempre da inconsapevole, a commettere un atto che, secondo un parallelismo che sa di contrappasso, lo pone sullo stesso piano del carnefice, ma in una luce peggiore, ché il peccato stavolta non è più presunto, come da cattiva fama, ma compiuto e registrato.
Una struttura a orologeria scandita e perfettamente bilanciata con l’azione e la violenza. Sicché, per Oldboy, si può parlare tranquillamente di capolavoro, vista la perfezione strutturale.
Difficile anche solo pensare di scrivere una storia del genere, figurarsi girarla e ottenere un film di due ore che non solo mantiene desto l’interesse in ogni reparto, attraverso scelte di casting azzeccatissime, ma che ottiene di sublimare quello che superficialmente può essere considerato il leit motiv, la vendetta – non foss’altro perché il film fa parte di una trilogia dichiaratamente dedicata a questo sentimento potentissimo – nella negazione di essa.
Il superamento della vendetta (o negazione), strumento quest’ultimo che soddisfa l’istante ma che, come viene più volte spiegato all’interno del film, lascia dietro di sé passioni e interrogativi irrisolti, avviene attraverso la presa di coscienza della colpa e tramite una ritorsione che sa di scontro di libertà: la libertà di Dae-su Oh di vendicarsi del proprio carceriere che lo ha privato della libertà e degli affetti familiari finisce laddove inizia la libertà di Woo-jin Lee, carceriere di Dae-su Oh, di vendicarsi del suo prigioniero per quel torto sconosciuto che, nel corso degli anni, s’è tramutato, per il giovane miliardario, nella unica e sola ragione di vita.
Soddisfatta, quindi, l’esigenza di vendicarsi, Woo-jin Lee non ha più alcuno scopo di esistere.
Antagonista spietato, lineare, perfetto. Che bilancia gli altri due protagonisti.
Dae-su Oh subisce invece un classico percorso di formazione. In un certo senso lo si potrebbe paragonare a un personaggio scritto da Dickens, considerando la sua evoluzione come crescita metaforica: Dae-su nasce (quando viene liberato), cresce e matura nei cinque giorni successivi al proprio rilascio prendendo coscienza del passato, del torto commesso che ha cagionato il suo presente, e del nuovo, terribile peccato di cui s’è inconsapevolmente macchiato, ma che costituisce, e per questo genera rimorso, anche l’unica gioia che possiede, in ciò davvero poco dickensiano, ma tragico come un eroe omerico.
Mi-do è invece lo strumento inconsapevole, colei che genera vendetta. Una portatrice. Infatti serve a entrambi i contendenti.
Incredibilmente, è un personaggio che riesce a serbare una propria dignità, nonché a conservare quell’aura di fascino morboso che sottende all’intera storia, fino all’ultima inquadratura. È un pilastro.
Questo è stato Oldboy, l’originale del 2003. E molto altro. E magari ne riparliamo dopo aver trattato del remake.
Una complessità e una ricchezza di estremi che il cinema odierno ha dimenticato. E peggio ancora, con cui il pubblico facile, che si bea della propria ignoranza abissale, non è abituato a confrontarsi.
Riguardo la domanda iniziale: sul perché rifare una cosa che è già perfetta, non ci saranno mai risposte, se non quella dei soldi.
Se si devono investire milioni di dollari in pubblicità, tanto vale farlo su un prodotto nuovo, che non sperare di coinvolgere una platea di dormienti con un film sconosciuto, intepretato da un protagonista bruttissimo (che è parte del fascino, questa cosa dell’aspetto anonimo del protagonista, rafforza infatti l’idea dell’uomo comune, con un passato di peccatucci il più comune possibile, che viene chiamato a forza a misurarsi con l’ira di un agente, una nemesi, molto più forte e incazzato di lui.)
Per cui, il pessimismo che mi precede nell’appropinquarmi a questo film c’è tutto, ed è atroce. E c’è in ogni caso la curiosità di vedere cosa avranno combinato, nonostante il cast di tutto rispetto.
L’interrogativo più grande riguarda il pericolo di annacquamento dell’intero impianto narrativo: l’avranno edulcorato, per renderlo più “amichevole” allo spettatore annoiato e semplice, che si scandalizza della violenza e del sangue, o avranno insistito proprio su quei motivi che hanno fatto grande l’originale?