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DOTA: il fantasy che ci piace è quello che conosciamo

Non so cosa cerchiamo, in verità, quando ci avviciniamo a un fantasy.
Forse un miscuglio delle cose che sappiamo già, e che abbiamo amato.
Tutti, o quasi, abbiamo iniziato con un guerriero. In un dungeon. Contro ghoul. E goblin. E il rugginofago, che ci ha subito instillato il sacro terrore di perdere le nostra spada +1.
Tutti – o quasi – abbiamo continuato con l’idea che ogni avventura necessitava di un gruppo di avventurieri il più possibile variegato, per far fronte a ogni necessità.
Era scritto che il master dovesse metterci in difficoltà, quindi meglio saper scassinare una serratura, curare le ferite, lanciare un incantesimo per vedere l’invisibile. E ovviamente, saper menare una spada. Non si poteva mai sapere.



E quindi è questo che cerchiamo, all’inizio, per ogni nuovo inizio, pur lamentandoci di volere altro? Qualcosa di diverso?
L’altro giorno ho ripescato su YouTube qualche episodio di Record of Lodoss War. Lo conoscete, di sicuro.
Li ho riguardati con un misto di nostalgia e benessere.
Oggi ne apprezzo soprattutto la musica. La colonna sonora è davvero ben fatta.
La storia… be’, è quello che era allora: un manuale di istruzioni per il giocatore. Ogni cosa al suo posto, immancabile, attesa, inevitabile.
I disegni tengono ancora botta e, se poi ci ricordiamo di Crystania, questi ultimi anche di più.



Ed è con lo stesso spirito che ieri mi sono avvicinato a DOTA: Dragon’s Blood, su Netflix.
Perché volevo un fantasy.
E speravo, in un certo senso, di essere trascinato ancora una volta in territori già noti, perché a volte la familiarità è ciò che manca, e che serve.

Per la cronaca: io amo l’originalità. Credo che esista, e che ci si sia impigriti a non cercarla. Ma questo non me la fa apprezzare di meno.
Ma, certe volte, non basta.

DOTA: ovviamente, una taverna.
Dopo una scena di caccia a un drago, ci si sposta nella taverna del villaggio. Questione di minuti.
È stato come entrare in altre centinaia di taverne. La sensazione è sempre la stessa:

– gente rumorosa che canta e beve birra
– il guerriero che ha salvato il villaggio che è la star della serata; vuole festeggiare il fatto di essere vivo ancora per un altro giorno
– il braccio destro della star, il suo accompagnatore vispo e scaltro, che rimorchia donzelle e imbellisce i racconti, tra un boccale e l’altro
– una viaggiatrice bellissima che se ne sta per i fatti suoi, disinteressata agli eventi locali, è lì per incontrare qualcuno
– un elfo. Il tipico elfo: biondo, pelle chiara, orecchie a punta. Gli uomini lo odiano in quanto tale, perché è diverso

Draghi, guerrieri, rituali recitati su pergamene.
La magia s’è compiuta ancora una volta.
Che dire di DOTA, visto che siamo abituati agli incipit, e io ho visto solo il primo episodio, che dura una mezz’ora scarsa, e che non si discosta nemmeno di un passo da tutto ciò che sappiamo del fantasy?
Che funziona.
Dopotutto è per questo che ci piace.
Leggere/guardare un fantasy è come leggere/guardare una storia ambientata nel medioevo, o in epoca romana. Sai già che prima o poi vedrai marciare i legionari, e che qualcuno finirà crocifisso, o nell’arena a combattere coi leoni. È questo che succederà, ed è per questo che lo guardiamo.
Col fantasy è lo stesso.
Non dico che debba necessariamente andare così, ma che non è orribile se è così che va, ancora per questa volta. Ecco.



Cerchiamo quel fantasy, vogliamo rientrare ogni volta in quella taverna, dove inizia l’avventura, dove si festeggia, e dove sappiamo già che saremo solo di passaggio.
Siamo quell’avventuriero. Proprio quello con quello spadone e tutte quelle cicatrici.
Una vitaccia, quella dell’avventuriero. Una vita che nessuno farebbe mai.
Forse sarebbe più saggio aspirare a mettere su una stazione di posta, una taverna ricca di musica e buon cibo, dove veder passare gente e ascoltare storie, e versare birra agli avventori.
E invece siamo lì, con la nostra mente, aspettando che ci si avvicini il tizio incappucciato e furtivo che ci proponga di esplorare qualche rovina, accompagnare qualcuno in qualche viaggio pericoloso, recuperare una gemma da un forziere in una torre ben difesa. E sappiamo che non finirà lì, in qualche modo la storia si complicherà, fino a farci misurare con mostri leggendari e divinità.

Ci aspettiamo già quel villaggio tra le colline, abitato da gente rumorosa ma perbene, ogni tanto invaso da qualche goblin delle caverne, niente di che, niente che non si possa gestire.
E poi le altre razze, che stanno lì, elfi mescolati agli uomini, perché evidentemente a stare tra loro non ci si diverte poi tanto.

Quindi DOTA… che è tratto da un videogioco MOBA, e che sembra uno strano scioglilingua, com’è?
Consolatorio come la minestra della nonna quando fuori fa freddo e avete il raffreddore, porta tutto quel calore e familiarità che cercate.
Prodotto americano, con l’ausilio di maestranze coreane per l’animazione. Si lascia guardare, si lascia conoscere per quel che è: quella storia che amiamo proprio perché ci è familiare come nient’altro.
L’originalità così bramata e mai del tutto ottenuta, ancora una volta, può aspettare.

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