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DOTA: fuori da quella taverna

Il 29 Marzo del 2021 accennavo a DOTA: Dragon’s Blood.
Avevo visto solo il pilota. Cercavo un fantasy, perché Chiodi Rossi non esisteva ancora, e il fantasy è ciò che serve in certi momenti della vita. Perché ti offre quella sensazione di calore avvolgente, allorché si entra – insieme ai potagonisti del momento – in quella taverna.
Proprio quella: dove inizia ogni avventura.

Sta di fatto che con DOTA: Dragons’s Blood ho proseguito, fino alla fine del Libro III. E qualcosa da dire ce l’ho.
Nel frattempo, come sapete, è nato Chiodi Rossi, e questo mi ha portato a riavvicinarmi al fantasy e a guardarlo con occhio critico.
Quindi, che ci dobbiamo raccontare su questa serie animata targata Netflix?

  • la prima stagione è la più compiuta: ci sono unità d’azione, tempo e spazio, vengono introdotti tutti, protagonisti e antagonisti, c’è un delizioso affacciarsi a un mondo complesso e non banale
  • la seconda stagione è frettolosa: la quantità di cose da raccontare non si sposa col ristretto numero di episodi a disposizione, per cui si assiste a una contrazione della narrazione, che spesso fa ricorso ad ampli salti temporali, che si scontrano anche con l’ampliamento del contesto, con l’introduzione di un mondo ancora più complesso strutturato in nazioni, enclavi e religioni assortite
  • la terza stagione recupera: lascia da parte lo scarso worldbuilding messo insieme frettolosamente nella stagione precedente e torna a concentrarsi sulla trama principale, che nel frattempo si è talmente tanto complicata, anche a causa dell’evoluzione spropositata di alcuni personaggi, da ormai toccare vette rischiose quali “la fine del mondo” o “il conflitto tra divinità”

DOTA: Dragons’ Blood mi è piaciuto, ma il suo più grande problema è che è durato solo 24 episodi da ventiquattro minuti ognuno. Davvero poco per poter degnamente ritrarre questo mondo peculiare e a suo modo estremamente complesso. Poco anche non tanto per costruire, ma per seguire l’evoluzione e in alcuni casi il compimento dei tanti, troppi personaggi. Nel caso della protagonista assoluta, Mirana, la vediamo passare dall’essere “principessa del nulla” a “reincarnazione della divinità” in un lasso di tempo che non permette nemmeno di godersi la cosa.
Credo che, a questo riguardo, il grande problema di DOTA non sia la scrittura, ma la quantità di tempo e soldi a disposizione. Sarebbero occorsi il doppio degli episodi, e delle stagioni, per sviluppare degnamente il tutto.

Dettaglio fondamentale, dopo il calo del Libro II, che narra di massimi sistemi, è singolare che la ripresa – insieme alla qualità generale- coincida col ritorno alla stessa taverna, al quotidiano, che personalmente è la dimensione che nel fantasy preferisco, di gran lunga rispetto alle gesta epiche.
Altro dettaglio che ho apprezzato è la decostruzione del mito del guerriero: Davion è un cavaliere dragone, facente parte di un ordine estremamente rispettato, ma il suo ruolo e le sue capacità sono costantemente frustrate da eventi e antagonisti del tutto superiori. D’altronde, ho sempre trovato poco credibile che al soffio di un drago si possa opporre con efficacia una spada. Davion quindi viene ridotto da eroe quasi a uomo comune in balia di forze più grandi, vittima suo malgrado dello stereotipo che la gente – e il genere letterario che lo rappresenta – hanno voluto attribuirgli, quello dell’eroe invincibile, dal coraggio incrollabile, che non deve chiedere mai. Il momento che lo eleva è il suo rapporto con Mirana, non incentrato solo sul semplice romance, nonostante sia – com’è ovvio – sempre la solita storia, quanto nel rapporto particolare che li lega e soprattutto nel fatto che Davion, di fronte a Mirana, può mostrarsi per ciò che è realmente, e non per quello che la società gli impone di essere, ovvero un uomo stanco, terrorizzato e vittima degli eventi. La debolezza è la sua forza, ed è ciò che rende solido il suo legame con Mirana. Molto ben fatto, rilassante a suo modo.

Nonostante le facili esagerazioni da powerplayer – dopotutto DOTA deriva da un MOBA – e la tentazione (o forse l’obbligo) di far evolvere semplici personaggi in depositari di poteri incredibili e dello stesso destino dell’universo, DOTA: Dragon’s Blood è un bel vedere, e soprattutto una buona narrazione.

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