Ho recuperato Krampus, grazie ai potenti mezzi dell’internet. Krampus, la cui programmazione, il Natale scorso, era stata cancellata dai cinema senza spiegazione alcuna.
Dopo averlo visto posso anche comprendere le ragioni di una tale scelta, ma l’azione in sé resta ridicola.
Un po’ come quando decisero di chiudere col wrestling in TV (salvo poi riproporlo dopo un paio d’anni, perché i soldi scavalcano qualsiasi senso di moralità posticcia) perché un paio di lottatori, Eddie Guerrero prima, Chris Benoit poi, erano morti in maniere decisamente poco spettacolari e/o amichevoli. Perché il pubblico del wrestling era stato identificato come pubblico di bambini e quindi non si poteva ammettere che questi “eroi” adulti del ring fossero umani, troppo umani. Schifosamente umani.
Krampus non è un film per bambini. È una storia spietata, esattamente come la creatura leggendaria da cui prende il nome. E ha una morale talmente solida, nella sua crudeltà e capovolgimento, che è quasi disturbante.
Ecco spiegato il motivo dell’esilio di questa pellicola, presentata ingannevolmente nel trailer come uno dei tanti film di Natale, un po’ più avventuroso del solito, ma che avrebbe dovuto sottendere, nelle intenzioni, alla morale stucchevole (e posticcia) della redenzione e dell’amore familiare ritrovato. Una morale cristiana, che ha assorbito tradizioni che con la natività non c’entrano nulla.
Frotte di bambini sarebbero dovuti andare al cinema a guardarlo, a divertirsi spaventandosi col Krampus, per poi consolarsi nel caldo abbraccio materno e paterno. Un sorriso e passa tutto.
Niente di più sbagliato.
Il Krampus è l’ombra di Babbo Natale. Qui dove vivo ora il Krampus segue San Nicolò, ha l’aspetto caprino e la lingua rossa guizzante, e un sacco in cui gettare i bambini cattivi, dopo averli sferzati a sangue.
Le sue origini si perdono nelle nebbie ghiacciate di Korvatunturi, luogo di nascita del vero Babbo Natale, una creatura venuta in terra per punire, prima che la tradizione ne mutasse volto e specie (da capra a uomo), e che la Coca-Cola decidesse di vestirlo di rosso e di farne un vecchio bonaccione (ché il vestito verde pareva poco… coinvolgente. Non scatenava la call to action).
Ebbene, pare che Michael Dougherty (regia) abbia preso seriamente la tradizione e, per rispettarla, abbia orchestrato il suo Krampus come un meccanismo a orologeria che, oltre a essere un survival horror ornato da apparizioni grottesche e altamente orrorifiche, assurge al ruolo di memento, il cui monito può essere riassunto in:
Se a Natale perdete la speranza sarà la vostra fine. E l’avrete voluto voi. Don’t fuck with the Krampus.
Le prime avvisaglie che Krampus non sia un film della tradizione commerciale si hanno dopo il quarto d’ora, quando c’è il primo omicidio, suggerito, ma sempre brutale. Un componente della famiglia riunita per le feste esce nella bufera per andare a trovare qualcuno e non fa più ritorno. La speranza natalizia è dura a morire, si sa, e i familiari non si preoccupano più di tanto.
Sono talmente aridi di sentimenti che l’idea che qualcosa di male possa essere capitato non può essere presa in considerazione.
Eppure la mancanza di luce, che è annuncio della presenza del Krampus, è simbolica della fine imminente. Quasi un presagio.
La fiaba nera prosegue con la comparsa degli aiutanti del Krampus, regali lasciati sulla soglia che, una volta aperti, prendono vita per massacrare i membri della famigliola: primo fra tutti per orrore è l’atroce marionetta-bruco che, a quanto pare, ingoia i bambini e cresce.
Ma al di là dei momenti di non particolare tensione, seppur bellissimi dal punto di vista scenico e scenografico, la cattiveria sottile della narrazione è da individuare nella costante tangenza di Krampus con la commedia natalizia, sia pure più avventurosa, che conduce lo spettatore a una serie di bivi interminabili, in cui sempre di più ci si aspetta/si desidera che giunga da qualche parte un lieto fine, se non un finale in qualche modo consolatorio, in special modo data la presenza nel cast dei protagonisti di un bambino che è la causa scatenante dell’arrivo del Krampus. Invocato perché l’odio per la propria famiglia ha ormai surclassato qualsiasi forma di amore.
È la perdita della speranza da parte del bambino, ad aver causato tutto questo.
Eppure, il riscatto non arriva, neppure quando il bambino decide di sacrificare se stesso per il bene della sua famiglia.
Perché?
Perché il Krampus non è creatura che si commuove. Non si può ragionare con lui. Esso è lì per togliere la speranza al mondo.
E questo quello che fa.
E la felicità, l’ipocrita felicità del Natale, che ci porta a stare insieme a persone che detestiamo solo per assonanza di DNA, è pre-confezionata, chiusa in una bolla di cristallo. È una trappola per l’anima. Ed è solo colpa nostra.
E Dougherty ce lo sbatte in faccia.
Non togliete la speranza ai bambini, brutti figli di puttana.
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