…faranno dei cimiteri le loro cattedrali, e delle città le vostre tombe
Questa è la frase che accompagna dalla sua uscita Dèmoni di Lamberto Bava. Un po’ profetica, suggestiva, che vuole richiamarsi a un’epica apocalittica che non c’è. Questo film non si sforza di essere apocalittico, perché, dopo tutto questo tempo, lo è diventato. Da solo.
Ci pensavo proprio stamattina, impegnato a fare altro, certe riflessioni, su certi film, diventano possibili solo facendo passare il tempo. Dopo venticinque anni muta la società e la sensibilità, temi trattati, magari solo accennati, intuiti, messi lì come diversivo piacevole, divengono feroce satira contro follia critica e malcostume, e associazioni dei genitori schierate sul piede di guerra per combattere la venefica influenza del cattivo cinema sulla società e sulle menti deboli.
Come nel teatro dell’assurdo, quel cattivo cinema in Dèmoni è letterale, è una struttura, un cinema, per l’appunto, ed è malvagia. Come nel mito, soltanto a un cieco, immune agli inganni del maligno, è dato di comprendere la verità ineluttabile. Solo che, a differenza dei personaggi omerici, costui non fa nulla per avvertire gli altri del pericolo incombente, eccetto quando è troppo tardi, tramutandosi anch’egli in veicolo d’infezione. Perché, non lo dimentichiamo, Dèmoni è un film su una zombie-outbreak. Esce due mesi dopo Il Giorno degli Zombi di Romero, anticipa le teorie sugli infetti di Boyle, e quelle sulla pestilenza velocista di La Horde; quest’ultimo, ora lo posso dire, pare presentare debiti pesantissimi verso l’opera di Bava.
Ma all’epoca cos’era, Dèmoni, se non una slam-bang gorefest? Detto in termini che mi sono propri: un’orgia di sangue e budella. Inscenata con tale sfacciataggine visionaria da far inovvidive i cvitici dell’epoca, che paiono esser fatti apposta (i cvitici) pev inovvidive davanti alla potenza visiva del trash foderato col b-movie, che per sua stessa definizione, irrompe per non farsi dimenticare, e da far esaltare chi, come me, il film lo recupera in una serata di scazzo, e ci vede, belli evidenti e affastellati, una miriade di riferimenti preziosi. Oltre che personaggi epici, come possono essere epici quelli che escono dall’irrealtà del cinema.
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Siamo in territorio tutto italiano, Lamberto Bava, Dario Argento, Sergio Stivaletti a inondarci di schifezze viscide e rosse e Simonetti a stordirci con la musica sintetizzata, che all’epoca pareva, non so perché, indissociabile da certo horror, come se ci credessero davvero che quei ritmi potessero rendere più incisive scene tratteggiate direttamente dal canovaccio dell’orrore, stile ragazza in luogo solitario terrorizzata dal rumore di passi…
Protagonisti, tra la massa, Urbano Barberini (Il tuo è un nome da nobili! Sei di sangue reale!? cit.), Natasha Hovey, con due occhioni blu grandi così, che sarebbe potuta essere la mia musa, se fossi nato negli anni cinquanta, nata a Beirut (che all’epoca ci si facevano battute caustiche, su quel posticino tranquillo per passare una vacanza) e Bobby Rhodes, livornese, italianissimo anche lui, nel ruolo del magnaccia di colore, che pare uscito da Scarface, reduce cubano, impegnato a dire alla gente di togliersi dai co… e a far fuori i dèmoni.
Giusto, i Dèmoni, perché in tutta questa giostra il bello è che ci sono anche loro. Dèmoni che sono il frutto dei film dell’orrore, o di un’antica maledizione. O tutt’e due. Metacinema, poi ripreso pari pari, tra gli altri, da Aldo, Giovanni e Giacomo. Far iniziare un film nel film prendendo tutti i luoghi comuni dell’horror, Nostradamus, la profezia sull’apocalisse, l’infezione che trasforma gli uomini in veicoli per i demoni dell’inferno, e inscenare una gigantesca presa per il culo, perché questo è, oltre a essere un film horror, verso coloro che urlano “è colpa dei film!”. E infatti, per una buona mezz’ora, i nostri spettatori assediati dai demoni, barricati in platea, da veri spettatori “imprigionati dalla finzione scenica”, tentano, tra le altre cose, di bloccare la pandemia dilagante, che vuole ogni umano trasformarsi se ferito da un infetto, arrestando la proiezione del film.
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Davvero, sembra un intreccio troppo rivoluzionario, persino per quei tempi. L’infezione dilaga, quindi, e i nostri, capitanati da Rhodes che in un attimo si trasforma da rompicoglioni che in sala fa casino in leader carismatico, come il contrappasso di un certo Drive-in di Lansdale, arrivano fino in cabina di proiezione per scoprire che: il cinema è una creatura a sé, il “cattivo cinema” d’inizio articolo, autonomo, automatizzato (con apparecchiature scenografiche riciclate da chissà cosa, piene di lucette intermittenti), non si sa bene quanto senziente, che si diverte a proiettare sullo schermo i medesimi eventi che si stanno scatenando nella realtà. Momento di congiunzione di cinema e metacinema è il passaggio dell’infetta attraverso lo schermo strappato: il film irrompe nella platea per trasformare una realtà sciocca in un massacro inscenato con grandissimo gusto.
Il Grande Fratello, quindi, che fa il countdown per la fine del mondo. Un intreccio senza capo né coda, quasi una piece teatrale (dell’assurdo), strutturata secondo eventi fissi, sul palcoscenico che è, più del teatro, quello più diffuso, almeno all’epoca. Oggi il massacro, l’infezione, etc… parte, e non ditemi che non è vero, dall’homevideo, dalla telecamera in spalla. Abbiamo quindi zombie, o affini, che sono strumento di evoluzione massmediologica, di decennio in decennio.
Ma non solo, perché Lamberto Bava si diverte a creare uno spettacolo a livello multiplo, le mena proprio a tutti: la lattina di Coca-cola con dentro cocaina, meta-bibita, sniffata non bevuta; un coraggio, quello di dare calci in culo alle multinazionali, attraverso il rosso di un simbolo fortissimo, che non s’è mai visto. Ma dov’è, adesso, questo fottuto modo di fare cinema?
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[contiene spoilers, anche dopo ventisette, lunghi anni]
Ma non è finita, perché La Horde (persino REC) insegna (ma in realtà è Bava), e noi siamo lì a sbavarci come non avessimo visto niente di simile prima, che dall’ambiente chiuso l’epidemia deve uscire. Nell’ultimo quarto d’ora c’è la trasformazione, molti personaggi si tramutano in demoni, molti da anonimi inconsapevoli in eroi da fumetto, Urbano Barberini che, impugnata la katana, a cavallo di una moto da cross (che ci fa una moto da cross in un cinema? Mah…) gira nella platea, tra le file di poltrone rosse, e falcidia i dèmoni che assediano lui e la sua bella, Natasha, alla quale egli ha porto la mano, secondo un copione classico, già visto, col bollino della nascita del mito. Dèmoni che sono saltimbanchi, come i motociclisti nei video del Drive-in (non Lansdale, stavolta, ma Ricci). Trasformazione finale, quindi: infatti, ancora una volta e al contrario, la realtà irrompe nel luogo di finzione scenica, il cinema. Un elicottero precipita sfondando il tetto della sala consentendo ai due superstiti, dopo aver azionato le pale per falciare gli ultimi demoni rimasti, di uscire per affacciarsi sul disastro. L’outbreak s’è trasformata in apocalisse e tutto il mondo, in poche ore, è finito a gambe all’aria. In questa nuova realtà già si muovono i primi sopravvissuti, quelli che combattono come non ci fosse un domani. C’è ancora spazio, dopo i titoli, per l’ultimissimo colpo di scena, e per la nascita di un nuovo anti-eroe, o tanti, che avrebbero visto volentieri le loro gesta proiettate in sequel storici, ma che sono finiti nel nulla del non cinema italiano.
E faranno del cinema qualunquismo, e delle sale cinematografiche le vostre tombe…
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