Underground

De la Iglesia

Ciò che adoro di de la Iglesia è la stessa cosa che, oggi, è la sua dannazione: l’impossibilità di racchiuderlo in un genere specifico.
Potrei anche chiudere qui. Non c’è molto altro da aggiungere.
La società, oggi, ama la catalogazione assoluta. In barba ai proclami di indipendenza creativa che, di volta in volta, si sono susseguiti in questa o quella corrente artistica e/o sociologica.
La società ama i paletti.
Li teme e li ama.
Soprattutto li ama.
Chissà perché.
De la Iglesia no.
Ed è per questo che lo amo io. Lo trovo affine.

Poi, se uno si sofferma quei cinque minuti in più e molla lo smartphone guardando solo e soltanto i suoi film, magari riesce anche a scorgervi un messaggio di fondo, coerente, costante nel corso degli anni, dell’opera del regista. Fin dai lontani anni Novanta, quando ci divertiva con un prete s’inventava cattivo per trovare l’Anticristo e ucciderlo, a Natale.
Giorni fa se ne discuteva con alcuni amici: se ci fosse stato, negli ultimi dieci anni, un film che amiamo ricordare, esattemente come i film degli anni Ottanta o Novanta, che quasi recitiamo a memoria.

Lì per lì, non ho saputo rispondere. Nessuno di noi l’ha fatto.
Poi ho visto El Bar, di de la Iglesia, e mi sono ricordato delle streghe, Las Brujas de Zugarramudi. Ecco, questo è un film che amo ricordare.
Perché de la Iglesia, che ama preparare calderoni con dentro di tutto, specie la nostra società, parla di streghe e lo fa parlando sempre e comunque di noi.
Parla di infezioni e pandemia. E parla di noi.
Parla di anticristo. E parla di noi.
E, a pensarci, è quasi ovvio. Visto che noi siamo tutte queste cose.

E sì, non ha una grandissima opinione di noi.

Piccoli, meschini, avidi, egoisti, disinteressati a ciò che capita loro intorno, a meno di un evento macroscopico – che so, un cecchino che si mette a sforacchiare i passanti – che costringa i tanti, piccoli egoisti, protagonisti dei suoi film, a fare i conti con la realtà.
O con la vita.

La vita, lo sappiamo, è ciò che intralcia i nostri piani. È ciò che si mette di traverso, quello che annienta le nostre certezze.
Noi amiamo campare di certezze. Ci siamo inventati pure le compagnie di assicurazione, sulla base di quel bisogno insopprimibile di certezza, che di colpo verrebbe meno se ci fermassimo un attimo a considerare che abitiamo su una roccia piuttosto instabile, e che quella roccia, insieme a tutte le altre e le stelle, si muove nello spazio, nell’ignoto, destinata chissà dove.
Comunque, noi amiamo le certezze a tal punto da dedicare a esse tutta la nostra esistenza, da subire traumi importanti qualora un evento inatteso ci privi di ciò che abbiamo faticosamente costruito.
Eppure, accade. Di continuo.

Ma non è una banale critica della società attuale, quella di de la Iglesia, dove gli uomini sono deboli e vili, sbiaditi di fronte alla determinazione femminile, aggressivi e violenti, dove l’individuo è annichilito di fronte alla socialità virtuale, che… non ci sono altre parole per dirlo, rincoglionisce.
Dove la morale del riscatto non appartiene al povero, o all’emarginato, che spesso è peggiore di chi ancora il sistema abita e sguazza.

Le storie di de la Iglesia contengono l’esistenza trasfigurata da eventi surreali. Per questo sfuggono alla catalogazione. Ricchissime di metafore, di trasformazioni che durano una manciata di scene, di sangue e vita.
L’assurdità del sistema che ci siamo dati viene abbattuta dall’anormalità dell’imprevisto, unico deus ex-machina che pare possa, non si sa per quanto, riportarci a una reale e veritiera percezione delle cose.

Pensandoci un istante, capita a tutti, dopo un incidente, dopo essere usciti quasi indenni da un problema, decidiamo che è ora di cambiare. Anche in questo siamo tutti testardi. E un po’ idioti.
E comunque pare non esserci alternativa.
Sembra che riusciamo a capire le cose solo sbattendoci contro.
E de la Iglesia lo sa, e ce lo sbatte in faccia ogni volta.

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