Anche quest’anno, c’è stata la premiazione degli Oscar.
Ma ok, è venerdì, e questo non vuole essere un articolo/pippone ad alto contenuto di saccenza, ma piuttosto una chiacchierata su alcune riflessioni che ho fatto.
Non è un mistero: per me gli Oscar sono invenzione del demonio. Tant’è che m’immagino un congresso di parrucconi autoproclamatisi esperti di cinema che stanno col pallottoliere a valutare, di anno in anno, tenendo conto di astrusi parametri che dicono essere oggettivi, ma in realtà sono soggettivi, le virtù dei film che piacciono solo a loro.
E, di anno in anno, la suddetta “oggettività” consiste, con rare eccezioni, nel premiare i “malati” e/o “moribondi”, e/o “psicopatici” e “freaks” di varia natura.
Personaggi immersi nel dramma fino alla punta dei capelli.
Che attirano su di sé e sulle loro vicissitudini la sfiga cosmica.
Che ci fanno intristire alla semplice consapevolezza che: potrebbe capitare anche a noi.
Whiplash non fa eccezione.
Non è stato premiato, infatti, il Sergente Hartman e il corpo dei Marines, ma un insegnante di Jazz che è, a tutti gli effetti, uno psicopatico maniaco del controllo che abusa dei suoi allievi, con la scusa che suonare è bello e che lui vuole forgiare genietti.
Ma questa non è una discussione su Whiplash, del quale, badate bene, approvo senza mezze misure il messaggio principale: per eccellere in qualunque campo occorre farsi il culo.
Anche quest’anno gli Oscar confermano questa risoluzione non ufficiale: Julianne Moore intepreta una malata d’alzheimer, Eddie Redmayne il fisico Stephen Hawking, affetto da atrofia muscolare progressiva, Inarritù vince l’Oscar con un film avente per protagonista un tizio affetto da allucinazioni e turbe psichiche di vario genere.
Uno normale no?
No, perché la normalità è noiosa.
Sono d’accordo.
L’anno scorso c’è stato Matthew McConaghey che ha vinto interpretando un malato di AIDS.
E già si sapeva, l’anno scorso come quest’anno, che avrebbe vinto McConaughey. E la Moore.
Primo perché, nel 2014, a concorrere c’era Di Caprio. E lui non vince.
Secondo perché il dramma è il dramma.
La traggedia.
Le lacrime che solcano il viso.
È un trionfo annunciato.
Sono cose belle.
Almeno credo.
C’era Jorge da Burgos, ne il Nome della Rosa, che aveva intriso le pagine del Secondo Libro della Poetica di Aristotele di arsenico. Perché era un libro che parlava della commedia. E nella sua visione di uomo tragico che non ride mai, il caro fratello Jorge aveva deciso di uccidere tutti quelli che volevano ridere e volevano, di conseguenza, leggere quel fottuto libro.
E l’impressione è che al mondo, di gente come Jorge, ce n’è a pacchi. E che tutta l’Academy sia composta da suoi fan.
Quante volte avete preferito un libro o un film piuttosto che un altro solo (o soprattutto) perché vi ha fatto piangere?
Sapreste spiegarmi il perché lo ritenete superiore, escludendo per un attimo il fatto che vi ha commosso?
E se non riuscite a escludere la commozione, perché ritenete quest’ultima un’emozione superiore rispetto a tutte le altre?
Quando uno vi fa notare ‘sta cosa, vi affrettate a assicurare che no, non è così, che una commedia (o un’avventura, l’azione o la fantascienza o quant’altro) vale quanto un dramma, nella scala del piacere e del valore dell’opera. Quindi un film diciamo nemmeno comico, ma una commedia intelligente ed elegante, in teoria, varrebbe quanto un drammone in cui piangono tutti e tutti si strappano i capelli di fronte alla catastrofe di turno.
Balle.
Le commedie intelligenti ed eleganti e girate con indubbio talento vengono considerate solo per i costumi, creati da una sarta italiana. Sì, brava, l’italiana vince e con lei vince l’Italia intera. (Cit.)
Ma non divaghiamo.
E, prima di andare avanti, chiarisco una cosa: niente contro i suddetti film vincenti, e SOPRATTUTTO niente contro gli sfortunati che si beccano sulla testa certe travi sotto forma di malattie incurabili. A loro va la mia solidarietà e il mio rispetto assoluto.
Qui si parla solo ed esclusivamente di intrattenimento.
E dell’umana specie che, nella maggioranza dei casi, preferisce, sempre e comunque, piangere anziché ridere.
Preferisce soffrire.
Sì, al cinema.
Oppure con un libro tra le mani. E la scatola dei fazzoletti accanto, sul divano, perché frignare è bello. E liberatorio.
Mah.
È intrattenimento, appunto, non vera sofferenza.
E la preferenza va sempre lì, alle robe che stimolano i lucciconi.
E la domanda resta sempre e comunque senza una vera risposta, che non sappia di supina accettazione e rassegnazione: le cose stanno così. Stacce.
Da quando in qua, ridere è una questione da cinque minuti? Tale che debba sempre passare in secondo piano, rispetto alla presunta serietà dell’argomento drammatico?
Rifletteteci, quanto è più complicato far divertire in modo intelligente, con un gioco di parole, con un’arguzia, con la mimica, col capriccio del fato, rispetto all’immediatezza della catastrofe annunciata e conclamata?
E, se lo scoprite, andate da quelli di Colorado, che non fanno ridere manco per sbaglio, e dite loro di arrendersi, per cortesia.