D’accordo, credo che di Crank e del suo seguito Crank: High Voltage sappiate già tutto. Però io me l’ero perso. Entrambi. Norys, poi, ha superato tutti i record, dal momento che possedeva tutti e due i dvd e non lo sapeva…
Ieri glieli ho requisiti e ho colmato questo gap. Solo ora so quello che mi ero perso.
E quel che finora mi ero perso è abbastanza. Senza iperboli assortite. È abbastanza.
Grazie Cyb e grazie Luca che me ne avete parlato.
Detto questo, ora tocca ai film. Un unico articolo perché in fin dei conti i due capitoli della saga, a quanto pare i primi due capitoli, dato che tutti, dai registi/sceneggiatori al produttore all’attrice Amy Smart accennano a un terzo episodio, sono un lungo grande film con protagonista un supereroe. Non tanto dei fumetti quanto, vista l’abbondanza dei richiami, dei videogames degli eighties, a grafica sgranata.
Il Cuore di [Chev] Chelios sembra un magico artefatto, un manufatto leggendario adatto a essere l’obiettivo di un’epica ricerca. Nel primo capitolo avvelenato, nel secondo rubato, un cuore instancabile, bersaglio di vendette e di desideri di una gioventù oramai perduta. Ma, con un cuore così, forte e indistruttibile, anche un vecchio di cent’anni può divenire immortale, come un dio.
La ricerca del Graal, nel petto di un assassino della mala di Los Angeles, è contorniata da papponi, mafiosetti ispano-americani, cinesi della triade, prostitute, gang, attori hard in sciopero e altre amenità che ti scorrono attraverso gli occhi a velocità supersonica.
Una solo cosa “Crank” NON riesce a fare: annoiare.
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Il Singhiozzo di Eve
Voglio dire, c’è di che offendersi, vedendo ‘sti film. Almeno, questo è quello che pensano i due registi, Mark Neveldine e Brian Taylor. C’è da meravigliarsi, sempre secondo loro, di come gli studios abbiano acconsentito a filmare uno script talmente anomalo. Sono convinti, in effetti, che la sceneggiatura non sia mai stata letta da nessuno, ma che abbiano creduto loro sulla parola. E magari c’è da credergli anche quando affermano che hanno davvero dato fuoco a Jason Statham, nell’ultima scena di “Crank: High Voltage”, quando Chev dà gentilmente il commiato. Un Jason/Chev interamente ricreato al computer, dice invece McQuaide, il tecnico degli effetti speciali.
Quelli che non sono effetti, ma improvvisazione, sono il singhiozzo di Eve, sfoggiato mentre Chev le dice che ha lasciato il crimine per lei, ma che, purtroppo, è stato avvelenato a morte. O Mark Neveldine [regista, ndr] attaccato, telecamera in spalla da otto chili e rollerblade ai piedi, alla moto guidata da Statham.
È il sogno di tutti i registi, ficcare la telecamera ovunque. Roba un po’ difficile, ma questi due, Neveldine & Taylor, se ne vengono fuori con una Canon HF-10 HDV, che è grande quanto una lattina di birra e pesa quanto la suddetta lattina, ma piena. Non una, ma quante se ne possono desiderare. Costa 700 dollari al pezzo. In pratica, con la spesa di una sola telecamera di 3500 $, se ne comprano 5.
Loro ne hanno usate qualche decina. Disseminandole lungo tratti di strada, teatro degli inseguimenti, saldandone sette o otto a binari ricurvi portatili e avviandole tutte contemporaneamente a riprendere un unico soggetto, in modo da, una volta montate le sequenze, creare una sorta di bullet-time artigianale; fissandole a modellini telecomandati per spararle a tutta velocità in mezzo al traffico e sotto le autovetture, per inseguire Statham.
E le riprese sono stabili e nitide e fanno [buona] impressione. Dicono che questo particolare formato risenta di sgranature nel fermo immagine, ma io non me ne sono accorto.
Le riprese sono come il film. Come Los Angeles.
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City of the Angels
Los Angeles è la mia città. Il mio sogno. Non ci sono mai stato e forse è questo che la rende tale. L’ho vista in decine di documentari, ho letto libri su di essa, guide turistiche, ho osservato servizi fotografici e sfogliato ogni possibile rivista che sia riuscita a ritrarla, ma appare sempre diversa. E infinita.
Non esiste per me città più bella. Perché così lontana dall’arte. Qui da noi l’arte ti viene vomitata addosso. Lì è tutto luci, strade, cartoni e palme altissime. E tanto basta.
Dicono sia anche pericolosa. E che la scelta di girare solo di giorno sia stata un’esigenza più che un capriccio di sceneggiatura.
Girare in certi posti a L.A., pur essendo in compagnia di una troupe di un centinaio di persone, può essere un rischio.
E poi, quella ritratta in “Crank” è la Los Angeles genuina, lontana dai grattacieli di Downtown, con case di legno che nascondono bordelli cinesi, o squallidi locali di spogliarello, quella in cui gang di un paio di centinaia di adepti si spartiscono qualche isolato di una giungla immensa.
Los Angeles è un fottuto vortice di umanità. Poco stupisce che abbia dato così tanta linfa vitale al cinema.
Assolata, afosa, carica di smog. È un set naturale dove capibanda travestiti da Elvis Presley comandano da isole costiere. Dove cinesi e latinos se le danno di santa ragione.
E dove si possono girare film dannatamente buoni e divertenti.
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The Importance of being There
Jason Statham insiste per girare le sue scene d’azione, dette stunt. Anche quando rischia di evirarsi o di strisciare per qualche decina di metri sull’asfalto rovente. Il personaggio glielo impone, anche se questa è una balla. Le vuole fare lui. Perché è lì, viene pagato, il ché non è male, ma soprattutto perché quelle cose, se sei lì, le fai. Le farei anch’io, se fossi lì, a costo di farmi ricucire da capo a piedi a furia di punti di sutura.
Amy Smart le sue scene, che la vogliono sempre mezza nuda, preda e complice dei raptus da ricarica di Chev Chelios, dice sempre che non vuole farle, ma anche lei è lì, anche lei si fa contagiare dalla follia del set, anche lei in fondo ammette che, dal momento che si sta girando un film così, non ci si deve porre dei limiti. E allora si accoppia selvaggiamente a Chinatown davanti a qualche decina di persone, facendosi ingroppare ben bene, e poi si concede il bis, una cavalcata all’ippodromo davanti stavolta a qualche centinaio di persone. Finzione scenica, è ovvio: recitazione. Ma il duo Smart-Statham rende molto bene l’idea… E, sì, persino uno strip al palo, perché la sua Eve è finita a lavorare come spogliarellista coi cerotti a croce sui capezzoli. E la sua lap-dance non è armonica con la trama, ma è stata fortemente voluta dai registi, perché Amy è bella. E probabilmente, fossi stato regista, gliel’avrei chiesta pure io.
E c’è il dottor Miles che smonta e rimonta il Cuore di Chelios, dopo essersi succhiato cubetti di ghiacco sciolti sulle chiappe della sua assistente, capace, quest’ultima di spendere 250 dollari in merendine, e cita detti di Confucio, tipo che il Karma è una stronza (karma’s a bitch) a una macchietta stupita che è David Carradine che è lì perché non si riusciva a trovare un cinese vecchio di cent’anni e perché in gioventù aveva recitato in “Kung Fu”. David Carradine è morto nel giugno 2009.
E Bai Ling, che è pazza. E guida senza patente. E se non le dici stop continua a recitare e torna a casa, vestita come una battona (stavolta più che semplicemente credibile) e spacca tutto e si dimena come fosse posseduta.
E io adoro il cinema. Sempre di più.
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Facciamo una Cazzata
300 ore di girato in 30 giorni. E c’è gente che si è persino chiamata fuori e rifiutata di partecipare. Palati fini.
Però, dico io, mai provato il gusto di fare qualche cazzata? E non mi riferisco a cazzate pericolose e dannose. Mi riferisco a quel tipo di cazzeggio divertente e leggermente folle, fatto da adulti che, per qualche giorno, tornano ragazzini. E si permettono il lusso di ridere anche delle battute sconce, di non offendersi se qualcuno li manda affanculo, di bere birra davanti all’inviato di qualche cazzo di rivista di cinema seria che vuole intervistarli. E di dire che per loro filmare una finta protesta di attori-hard in sciopero, che vede il cameo di uno storico protagonista del calibro di Ron Jeremy, è storia del cinema. Senza dabbenaggine. Concedendosi il lusso di essere incoscienti. Se non del tutto, almeno un po’.
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