Partiamo dal presupposto che Conan The Barbarian (2011), come tutti i film su Conan, non è un film su Conan. Non quello di Howard, almeno. E, per dirla tutta, sono felice così. Tanto caratteristico è il Conan alter-ego di Bob, quanto apparentemente impossibile, nonostante le centinaia di ottime storie all’attivo, tradurlo in cinema. Misteri della vita, ai quali è bene guardare con fede, mettendo da parte ragione e domande. Le cose stanno così. Così come il fatto che in sala eravamo sette spettatori contati, coi nostri begli (e pieni di ditate) occhiali 3D. E il 3D di questo film è mediocre, tendente all’inesistente *. Ma questa è un’altra storia, come direbbe Mako lo stregone…
Non odio questo film perché, unico tra molti, ho messo a tacere quella vocina, quella che ti dice di sperare l’insperabile, fin dall’inizio. Conan-Momoa, hawaiano che gioca a fare il Cimmero, associato alla regia di Nispel, è risultato assicurato. Niente sogni o sciocche speranze.
Sono andato a vederlo per farmi quattro risate. E alla fine, me ne sono fatte anche di meno di quanto mi aspettassi. Deludente, questo non-Conan, persino dal lato comico, nonostante perle d’indubbio spessore.
Una parola sola: Venarium. E il vero Conan ci arriva dopo aver strozzato a mani nude un toro. Cioè, Conan non è mai stato adolescente. A diciassette inverni si è già uomini, in Cimmeria, figurarsi se si può cazzeggiare a far le corse intorno alle colline senza rompere le uova. E su questa strana usanza nispeliana, sorvolerei e di brutto.
Ma Venarium non c’è. Anzi, c’è. Solo il nome, come tanti altri nomi riciclati a uso e consumo, per aderenza all’originale.
Conan the Barbarian non è un remake di Milius. Questo secondo la storiografia ufficiale. E la cosa funzionerebbe anche, se potessero usare la damnatio memoriae. Ma, visto che non si può, noi altri possiamo tranquillamente affermare che è un (pessimo) remake del film di Milius (che, ricordiamo, non è un film su Conan howardiano) ed è anche Prince of Persia, I Pirati dei Caraibi, Il Re Scorpione e persino Indiana Jones e il Tempio Maledetto.
Robert E. Howard non c’è. Proprio no.
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Ron Perlman. A lui una sola domanda: perché?
Perché si ostina a riciclarsi in questo modo? A fare il papà cimmero amorevole, nella landa barbarica per eccellenza? Ma, in fin dei conti, sono questioni di secondo piano, perché sostanzialmente inapplicabili a un film come questo, strutturato per annichilire qualsiasi tentativo di pensiero autonomo (e anche di approccio critico) dello spettatore.
La vendetta, motivo fondante e trainante il predecessore, lo è anche qui. Ed ecco che la maestria di Milius supplisce laddove la dozzinalità spettacolosa di Nispel appiattisce ogni velleità artistica. Entrambi i Conan si vogliono vendicare del torto subito, ma qui, nel Conan Hawaiano, c’è un senso della nazione, dell’onore, d’affetto per i propri cari, che francamente trovo disturbante, oltre che del tutto estraneo al personaggio. Ridicolo che l’esponente di una società fondata su lotta e massacri come quella cimmera, stia a preoccuparsi e arrivi a rinfacciare al suo nemico di brandire una spada che ha tagliato “centinaia di gole cimmere”. Conan se ne sbatteva le palle dei suoi conterranei, il suo destino era ben altro e i suoi dei se ne fottevano di lui e delle sue vendette. Era tutto un fottersi a vicenda, ed era giusto così, senza zucchero, senza affetti negati, senza invidie del pene assortite. Insomma, Conan è un cazzo di barbaro, non il rampollo privato del feudo. In pratica, invece, di Momoa è il ruolo del decerebrato tutto muscoli e pochissimo cervello: il maschio alpha contemporaneo, il tamarro…
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Dialoghi che rasentano l’idiozia, per circa due ore di non-trama, che si dipanano tra un paio di battute doppiate male, con voci che definirei “alla cazzo di cane” che non si possono associare neanche lontanamente ai personaggi assegnati e una serie interminabile di duelli al sangue: ce n’è in sovrabbondanza. Appena la spada di Conan, ottenuta tra ruggiti al cielo e nasi mozzati, tocca, giù un diluvio di sangue shining-mode. E devo dire che, almeno questo, ci sta. Almeno non abbiamo a che fare con tante Barbie e tanti Big-Jim, che li tagli a fette e non esce neppure l’acqua.
Emblematica, per indicare una volta per tutte lo spessore dei personaggi è la battuta con cui Conan-Momoa conquista le sottane di Tamara-sacerdotessa-predestinata-dal-sangue-puro: “Io vivo, amo, uccido e… sono contento.” **. Io ci avrei aggiunto pure la risatona da orango scemo, ed era fatta: in pratica un calciatore del ventunesimo secolo. Solo che fa il barbaro, o così dice, aspettando L’Isola dei Famosi.
Tamara (Rachel Nichols) non è da meno. Modello di empowering femminile distorto, ovvero, donna sbarazzina che osa dire no al maschio alpha (scemo), ma che poi cade ai suoi piedi dopo l’amena battutona di poco fa. Una vergogna.
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Velo pietoso sulla colonna sonora presa al discount sword & sorcery e sulla scempiaggine del legame sentimentale Conan-Tamara, non si può tacere sulla straordinaria inconsistenza delle figure di Khalar Zym (Stephen Lang), il villain e sua figlia Marique (Rose McGowan): brutti, ma mai quanto i loro seguaci, TUTTI coi denti storti, sghignazzanti, e degni esponenti, come sempre, della Overlord List, compresa la scelta della location finale che, immancabilmente e in modo inspiegabile, crolla quando la situazione precipita. Non so, una costruzione recente, non a rischio crollo per il rito finale del Gran Cattivo è troppo difficile da trovare?
Comunque, avete capito, cattivi con ridarella tremens, sghignazzo facile e attacco di logorrea che impedisce loro di uccidere il protagonista sul più bello: “Ecco, te l’avevo detto, non saresti mai riuscito a bla, bla, bla…”. Khalar Zym, bastava un cazzo di fendente e gli mozzavi la testa a Conan. Su, dai… non essere ridicolo.
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È falsa, invece, la diceria diffusasi di recente, che voleva Conan restauratore della civiltà. Niente di tutto questo. Però, ecco, il nostro Cimmero ha sviluppato la strana abitudine di liberare gli schiavi, dovunque siano e a chiunque appartengano. Così, anziché sgraffignare tesori di negromanti in città esotiche dedite al vizio, assalta ignari mercanti gettando loro addosso, dal versante di una montagna, massi di qualche tonnellata ciascuno travolgendo ogni cosa, bancarelle, donne che trasportano vasi in testa, ignari asinelli che portano sacchi di merce e che muoiono dalla voglia di mangiare un po’ di fieno. Però, ehi, ha liberato gli schiavi, ossia un branco di puttante ben lavate e profumate, con le quali non mancherà di spassarsela.
Ok, direi che basta così. Alla prossima.
Altre recensioni QUI.
* e fa pure venire il mal di testa (thanks to Gemma Tanzini)
** battuta tratta da “La Regina della Costa Nera” (thanks to Michele Tetro)