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[Conan]: I Gioielli di Gwahlur

Jewels of Gwahlur (I Gioielli di Gwahlur) è un racconto di Robert E. Howard, pubblicato nel 1935 su Weird Tales, avente come protagonista il barbaro Conan.
Il 1935. Siamo quasi alla fine della parabola terrena dell’autore, morto nel Giugno del ’36.
I Gioielli di Gwahlur rappresenta, sotto certi aspetti, una forma di narrazione consolidata, per Howard, da rivista, pubblicazione retribuita, per sopravvivere nel deserto texano.
Howard era uno che ci provava, esattamente come il suo alter-ego. Era sempre sul piede di guerra, coi suoi racconti. Così come Conan prova sempre a migliorare il suo status sociale, ad accumulare ricchezza cercando tesori antichissimi, celati in luoghi pericolosi: grossi guai, grossi risultati.
E sempre, tra le mani del barbaro non resta che un mucchietto di polvere, perché perde tutto nel tentativo.
Ma in fondo, l’abbiamo visto altre volte, l’elemento principale, che costituisce il fascino delle storie di Conan non è il risultato, ma la forza indomita del protagonista, elemento di contrasto costante col mondo, proprio per la sua natura, e anche punto di rottura: dovunque Conan metta piede, costituisce, di lì a poco, il fattore di disturbo, di disequilibrio, che distrugge un sistema costituito.
Il titolo originale del racconto era “The Servants of Bit-Yakin”, gioielli e servi, entrambi elementi presenti nel testo, creano attese diverse.
Schema classico, da rivista, dove veniva pubblicato a puntate. I Gioielli di Gwahlur è suddiviso in quattro parti.
L’intreccio è costruito secondo schemi e elementi precisi, ben dosati, già sperimentati altre volte.
Nessuna meraviglia: possedere la struttura di un racconto, significa quasi sempre scrivere un buon racconto.
E il pubblico di Howard non era un pubblico di filosofi, voleva eroi, eroine, damsel in distress e mostri terribili. Tanto bastava, perché, a ben guardare, è già tanto.

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Conan è nel meridione del continente Hyboriano. Al solito ha prestato le sue doti di soldato ai re neri locali per restare in quei territori il tempo necessario a conoscere l’ubicazione di un tesoro unico: i Denti di Gwahlur.
Quindi ciò che spinge Conan non è la retorica, ma il desiderio di migliorare la sua vita, nel modo più breve e rischioso possibile: rubando.
Non è un santo, Conan, né un virtuoso: uccide, ruba, è soprattutto un ladro. Dal momento che, essendo anche un barbaro, non può sperare di trovare integrazione in una società bianca decadente e corrotta, ormai prossima al collasso, e in una società nera dove la differenza di pelle è soprattutto differenza di cultura, e superstizione. Nei regni neri Conan è un grande guerriero, ma non sarà mai uno del posto. Sarà sempre guardato con sospetto.
Come dicevo prima, Conan è alieno al suo mondo, ovunque si trovi. E, siccome è anche fortissimo, anziché subirlo, lo sfida. Sempre. Con esiti ambivalenti.
E funziona. Funziona da quasi cent’anni. Non ci piacerebbe un Conan diverso, gentiluomo e moralista. Anche se ci stanno provando, a snaturarlo.

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Lo struttura de I Gioielli di Gwahlur è:

Conan
un tesoro nascosto
un avversario, forse due
rovine abbandonate
una scream-queen o damsel in distress
un fattore sconosciuto

Simile a ciò che troviamo in Chiodi Rossi, Ombre al Chiaro di Luna, La Regina della Costa Nera, Ombre su Zamboula, L’Ombra che scivola, Lo Stagno dei Neri, Il Demone di Ferro, per citarne solo alcuni. Con variazioni talvolta impercettibili, talvolta evidenti, di uno o più elementi.
Conan si addentra nella città perduta di Alkmeenon, cercando i Denti. Vi scopre un intrigo ai suoi danni, un altro avventuriero mira alla ricchezza, e scopre le tracce di un male antico, che si cela tra i corridoi bui, negli anfratti, tra le colonne della città, ma che non si mostra,  non subito, come quella consapevolezza che ghiaccia il sangue, e che allo stesso tempo ci attrae e spinge a continuare.
Muriela è la scream queen di turno, una figuretta snella, impaurita, chiamata a impersonare Yelaya, la dea parlante. Figura tipica della narrativa howardiana, perfetta e preziosa così com’è, funzionale. Un personaggio che mai più incontreremo, che in poche pagine incrocia la sua esistenza con quella del barbaro.
Ci si dovrebbe scrivere un articolo (e magari lo faccio) solo sulle Ragazze di Conan, che hanno tutte la medesima funzione, bilanciare e allo stesso tempo motivare l’agire del barbaro, ma che sono tutte diverse l’una dall’altra. Un pregio, invero.

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Alkmeenon, la Città perduta, è quindi il microcosmo dormiente, dotato di equilibrio proprio, che non si aspetta l’arrivo del barbaro.
Lo scontro è inevitabile e cruento, come sempre.
Il fattore sconosciuto si mostra nell’ultimo quarto della storia, dirompente e atteso, proprio perché ben costruito fino a quel momento. Creature selvagge che irrompono e soverchiano, con la forza delle mani nude, uomini armati, sfracellandoli.
Conan piace ai lettori, vanta già un nucleo di appassionati, sta già spianandosi la strada, nel 1935, al suo passaggio nel mondo a fumetti, dotato com’è, di caratteristiche fisse, poche e distinguibili, perciò facilmente riproducibili, proprio quello che serve per disegnarlo.
E Howard lo sa benissimo, e di volta in volta fornisce al barbaro una scena unica, perché si fissi ancor di più nell’immaginario, per creare affezione. In questo caso c’è la scelta che Conan deve compiere, alla fine, tra i gioielli e Muriela. Entrambi rischiano di andare perduti per sempre.
Non serve che vi dica chi sceglie, alla fine, giusto?
Ancora una volta, Conan ha scommesso contro il mondo, e ancora una volta è andato in pari, tornando ciò che era all’inizio del racconto, di ogni racconto. Ha sfiorato la ricchezza immensa con la punta delle dita, l’ha posseduta per qualche istante, e l’ha persa. La formula per la grande narrativa.
Ma ha una compagna, adesso, come sempre. Che gli dona l’ennesimo soffio vitale, la spinta verso altre avventure, altre uccisioni, altre ruberie e saccheggi, altri tesori da arraffare, e perdere. Quello che conta, in fondo, è solo la lotta, la vita stessa.

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