Devo dare atto a un po’ di persone che hanno lavorato in questo film. Tom Hanks, prima di tutti, che avevo preso in antipatia. Cose che succedono. Invece qui è magnifico, istrione a cui sono stati affidati millemila personaggi. Combatte, rissoso, tenta di avvelenare, fa il cinico bastardo, ma anche il folle amante. Insomma, mancava da tanto tempo un attore poliedrico. O meglio, un poliedrico a cui fosse data la possibilità di esserlo.
Poi ci sono loro, i Wachowski, Andy e Lana, insieme a Tom Tykwer. I primi ci hanno donato/venduto Matrix, il secondo, di origini tedesche, mai sentito prima (balle, è il regista di Profumo ^^). In tre lavorano a Cloud Atlas, tratto da un romanzo di David Mitchell. Ed è grandioso.
Tale da suscitare un’emozione a cui non sono abituato. Siamo di fronte a una produzione milionaria, il budget totale si aggira intorno ai cento milioni di dollari. Sì, è stato fatto di peggio, in termini pecuniari, ma qui si avverte la vastità dell’opera. Tutta.
Che non è solo vastità di sforzo finanziario, ma di temi universali. Storie che s’intrecciano partendo dall’Ottocento schiavista fino a un futuro post-apocalittico e che sposano l’epica.
Lo fanno in modo intimista, contrariamente a quanto ci si possa aspettare da ogni storia che sfiori l’esistenzialismo. L’umanità, la specie umana, caotica, violenta, retrograda, ma anche ambiziosa e desiderosa di vette d’intelletto, si coglie negli sguardi dei protagonisti.
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E da spettatore, non posso fare a meno di applaudire per la sensazione disarmante, senza accezione negativa, che si prova guardando questo film. Intimista, è vero, ma non per questo mancante di grandiosi affreschi, a volte cinici, brutali, asettici come possono essere quelli di una fabbrica destinata a certo tipo di smaltimento.
Ostico, per i duri di comprendonio, non foss’altro che si salta da un secolo all’altro, in un intreccio che non è solo tale per definizione. E che induce al gusto per la ricerca dei legami, in un’indagine volta a scoprire connessioni nascoste, che forse ci sono, forse no.
Il classicismo in atto: le colpe e i meriti dei padri si trasmettono ai figli, attraverso il loro dna, come marchio genetico. Questa era la versione classica, greca, della tragedia, l’abbiamo già visto.
L’idea di Mitchell, che poi è stata sposata dai tre registi, è che questa eredità, l’eco delle nostre azioni, siano esse buone o malvagie, si propaghi su di noi in quanto specie, destinata perciò a scontrarsi attraverso lo scorrere dei secoli, combattendo per gli stessi valori o disvalori, secondo un ciclo eterno, reso diverso soltanto dall’evoluzione tecnologica.
Se c’è progresso, per la nostra umanità, esso è molto più lento, ottenerlo significa compiere un viaggio molto più lungo di quello che occorre per passare dai velieri alle navi spaziali.
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Cloud Atlas non è tanto elogio della diversità, come potrebbe sembrare, pur considerandola, come dev’essere, un valore assoluto, quello che consente a noi stessi, in quanto specie intelligente, di evolverci, ma una presa d’atto malinconica e struggente che essa, la diversità (di pensiero, di sessualità, di indole, di cultura, di pelle) sia e sarà sempre osteggiata con violenza e ferocia inaudite dalla massa informe, dall’epoca del commercio degli schiavi, fino allo sfruttamento post-cyberpunk, di altri esseri viventi, dove, saggiamente, i due gruppi contrapposti sono l’Unione, la loggia ribelle, che promulga la diffusione della conoscenza e soprattutto della coscienza, e l’Unanimità che, lo dice anche il nome, identifica l’umanità col singolo e eradica, letteralmente, ogni forma di dissenso. E questi sono gli estremi, principio e fine di questa storia, passando attraverso l’omosessualità, il femminismo, persino il maltrattamento degli anziani, l’amore, il razzismo (fa specie, ad esempio, che discorsi sul colore della pelle trovino posto persino nella linea temporale più lontana di Cloud Atlas, l’ultimo futuro, post apocalittico, che ci vede colonizzatori del cosmo).
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Presa d’atto malinconica, questa della diversità, in quanto la realtà è che ogni libero pensatore, che non si uniforma alla morale imperante, ossia quella accettata dalla massa, venga osteggiato, perché la sua stessa esistenza costituisce un pericolo per lo status quo, e infine distrutto. Eppure, questo è il messaggio che passa, quest’indole indomabile che spinge al cambiamento è destinata a restare come scintilla, a conoscere esplosioni immediate, a portare scompiglio per abbattere l’oscurantismo. In pratica, il ruolo dei martiri.
E questo lo vediamo ogni giorno, anche nelle piccole cose: la nostra specie, senza tirare in ballo le religioni, progredisce grazie al sacrificio di pochi. Cosa, a dire il vero, della quale dovremmo vergognarci.
Ma a ogni epoca corrisponde la propria sensibilità, e se nell’Ottocento la questione era la schiavitù dei neri sotto il giogo dei padroni bianchi, e nel futuro è l’industrializzazione della forza lavoro, in quella a noi contemporanea è la bambagia della moltitudine, il nostro essere fondamentalmente delle capre, pronte a seguire coloro che sbraitano più forte: esemplare, a tal proposito, l’ottimo episodio del critico letterario (non vi anticipo nulla per non rovinare la sorpresa), che è di sicuro anche inside joke circa le critiche subite dai fratelli Wachowski. E raggelante è sentire la giusta considerazione che qualsiasi opera sarà letta o meno in base al pregiudizio della gente, magari dissuasa o persuasa da un parere autorevole, incapace di ragionare con la propria testa. Eccoci qua: il nostro ritratto.
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Reparto tecnico eccellente, una scena soprattutto m’è rimasta impressa, quella che vede un’auto, un maggiolone, precipitare da un ponte, completamente gestita dall’interno del veicolo. Realismo allo stato dell’arte.
Cast stellare, ma non per questo meno eccezionale, a parte Tom Hanks, ricordo Halle Berry, Hugo Weaving, che azzecca una serie di cattivi uno più bello dell’altro, e l’orientale Doona Bae, a quesst’ultima uno dei ruoli più intensi, che spiega come, a volte, nascano fenomeni talmente profondi, cambiamenti ideologici così radicali per l’umanità che le generazioni future, incapaci di comprenderli perché magari sopravvissuti a loro volta a un olocausto, li considerino frutto di volontà superiori, in breve, divinità.
E queste sono solo le prime impressioni, per un film corale che commuove, induce alla riflessione e spinge all’autocoscienza. E lo fa senza retorica.
Giù il cappello, signori e signore, questo è cinema. Finalmente.
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