Cinema

Il gusto algoritmico: Oxygen

Ieri sera ho guardato Oxygen (Oxygène, Alexadre Aja) con Mélanie Laurent. Scritto da Christie LeBlanc.
Mi è piaciuto, ma non è questo il punto.
È che, mentre lo guardavo, pensavo al cinema sperimentale, senza regole, di appena qualche decennio fa.
E al “gusto puramente algoritmico” (cit. Vampire the Masquerade: Shadows of New York), che viene rimproverato – ed appartiene – agli autori e ai critici.
Oggi è tutto algoritmo. L’algoritmo del gradimento. Ciò che ti garantisce di continuare a essere gradito al pubblico, di continuare a ricevere like. Che sono, davvero, ciò che ti consente di esistere.
Senza buttarla verso il sensazionalismo spinto: sto parlando di esistenza in termini di internet. La misura della percezione altrui di noi stessi.


Che è legata al ritorno in termini di influenza.
In termini economici.
In termini di soddisfazione personale e professionale.

Negare che le cose stiano così è negare la realtà.
Al tempo stesso, non sto implicando che la cosa debba piacerci per forza. È che, forse, cominciare a ammetterlo, a non illuderci sul fatto che film e libri siano liberi, ma solo progettati per sembrarlo, ci può aiutare anche solo a pensare di cambiare le cose, o a diventare – di contro – complici del sistema.
Niente più ipocrisie, insomma.

Oxygen non è un brutto film. Per nulla.
Certo, anche dopo solo una dichiarazione di questo tipo si dovrebbe oggi fare una premessa: dipende dalla sensibilità, unita alla cultura dello spettatore, e al momento storico.
Diciamo che, per il sottoscritto, in questo momento della sua esistenza, non è stato un brutto film.
È che… è stato studiato per essere così.
Per non contenere nessun guizzo particolare. Perché i guizzi sono imprevedibili, così come le reazioni del pubblico.
E hai visto mai che, oggi, l’offesa di un singolo si tramuti in una shitstorm di proporzioni planetarie, gettando discredito sul film stesso, e su chi ci ha lavorato, spezzando le gambe alla carriera di un sacco di gente.

Un incubo, girare un film, oggi.
Siamo ben lontani dall’Aja che immortalava del sesso orale con una testa mozzata e decapitava qualcuno con una credenza spostata all’occorrenza. Sembrano passate ere geologiche.
Oggi, come detto, c’è il gusto algoritmico. Che è la matematica del piacere. Il gradimento del pubblico.
Quindi Oxygen è costruito a tavolino per essere un film di fantascienza, attuale perché no, ché il gioco delle metafore è fin troppo evidente: una trappola per la protagonista che riecheggia lockdown e quarantena; che non deve annoiare lo spettatore medio soffermandosi su implicazioni esistenziali derivanti dal clonare la gente, che deve trasmettere un senso di claustrofobia ma non troppo, non tanto da far mancare il fiato per davvero, che ci proietta in un futuro catastrofico solo per dirci che fino all’ultimo secondo c’è sempre speranza. Che gioca sulla fin troppo scontata similitudine tra cavie da laboratorio e esseri umani. E che non stupisce, nemmeno un po’, nemmeno quando l’inquadratura si allarga e diviene panoramica sul colpo di scena finale.
Perché anche quello, il colpo di scena, è ormai algoritmo. Lo vedi arrivare già dal minuto due, tramite indizi disseminati. E, se non lo si è visto arrivare poco importa, si svolge comunque secondo gli standard: inquadratura grandangolare, ribaltamento degli eventi, score che vira sul maestoso andante.
Tutto come da programma.
E… proprio come “il gusto puramente algoritmico”, funziona. Perché la matematica funziona.
Siamo alla distopia creativa. Che è anche distopia del gusto. Strutturata non perché sia infallibile, perché le varianti infinitesimali esistono, ma il più possibile aderente al successo garantito, che si traduce in stabilità economica.


Ma la forza degli autori è la loro personalità, la libertà creativa. Solo che, in un momento storico così fragile come il nostro, non può esistere libertà creativa, non per davvero, non sui grandi numeri. Così si ricorre a un’imitazione della stessa. Aja imita se stesso ripulendosi.
Non c’è niente di sbagliato in Oxygen. Tanto che funziona. È una macchina progettata per allietare il più grande numero di persone.
Manca il fattore così tanto temuto dall’industria da essere stato ridotto a cifre prossime allo zero: l’imprevedibilità. Perché l’imprevedibilità fa bruciare soldi, fa nascere polemiche che fanno bruciare soldi, crea il caos. E il caos fa bruciare soldi.
L’imprevedibilità – ho appreso dai libri – è la personalità dell’autore. Ridotto a ingranaggio, a mero esecutore di interessi superiori.
Se così ci piace.

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