L’uomo è un animale sociale, fino a quando la società resta fuori dalla sua casa.
E con questa massima, che mi sono inventato proprio adesso, credo ripenserò sempre al Condominio (High Rise) di Ballard.
Che, come ogni scrittore che si rispetti, preconizzava un’umanità tanto dipendente dal proprio benessere da essere sprofondata nell’ignavia e, di conseguenza, nell’ultra-violenza.
Ebbene, io ho sempre i brividi rispetto a tali, lucide visioni della nostra specie. Poi, mi guardo intorno, e mi accorgo che in quella visione ci campo già. Da almeno una ventina d’anni.
E allora sospiro, in un misto tra brivido e lucidità. Di chi veramente s’accorge che c’è gente che, per un rifiuto, arde vivo il vicino di casa.
Nel condominio si cominciava ammazzando un cane durante un blackout. Così, per sfogarsi.
Solo io ci vedo analogie?
Ma è bene ribadire, la nostra è diventata una specie cattiva e violenta. Per carità, io sono convinto che non sia nata tale. Non condivido questa visione cosmica e romantica che vuole il primo atto senziente della nostra specie coincidere con un atto di violenza, come mostrato da Kubrick in 2001: Odissea nello Spazio.
– NON HO DETTO che non mi piace Odissea nello Spazio, tu, che leggi ma non capisci –
Quella non è violenza, è sopravvivenza. Siamo una specie ad alto successo evolutivo. Soprattutto curiosa, erosa dall’ossessione di esplorare l’ignoto per renderlo noto.
Questa sete di esplorazione che non si colma mai è, insieme al costante movimento e all’adattamento, la strategia alla base dell’evoluzione.
Poi, non so cosa sia successo, a un certo punto il benessere ci ha fatto adagiare su noi stessi. E, mai come oggi, che siamo tutti beati e soddisfatti, col mondo a portata di dito sul nostro schermo interattivo del nostro device, siamo stati così passivi.
È la passività, credo, la causa del disfacimento. Culturale, sociale, emotivo.
Si piange della morte di un gorilla o di un leone, e ce ne fottiamo dei settecento nostri simili morti in mare.
È morto un uomo, chi se l’incula?
Ecco, la passività, che va a braccetto con l’odio egoistico verso i nostri simili. Che, in queste circostanze, come si dice, se la sono cercata.
Cosa, poi, abbiano cercato, non è chiaro, ma dirlo o pensarlo soddisfa il nostro piccolo io meschino e godereccio, che solletichiamo quando guardiamo ai confini dei nostri possedimenti: di solito il nostro soggiorno coi nuovi mobili ikea.
La passività è stata annunciata da tanti, piccoli segnali. È stata voluta, persino, dalle grandi azienze, che ci hanno reso totalmente dipendenti dai loro prodotti.
I datori di lavoro ci fanno la grazia di darci un posto e la carità dello stipendio, giusto?
Non siamo noi che, col nostro lavoro, garantiamo alla collettività di esistere, no. È una concessione dall’alto.
Passività…
Un altro esempio? I cosiddetti nativi digitali sono coloro che, per paradosso, non sanno cosa sia l’installazione di un programma. Installare un software, adattarlo, impostarlo al proprio sistema operativo…
Perché nel frattempo le major informatiche hanno eliminato l’installazione, rendendola automatica. Perciò pochi oggi (professionisti a parte) sono in grado di smanettare col software al di là del clic sull’icona. Quando abbiamo iniziato, ci siamo avvicinati ai computer, saperci fare con la programmazione era condicio sine qua non per sopravvivere e ottenere dal PC certi risultati.
Adesso no, basta un clic e tutto si installa da sé. Gratis, soprattutto. Facile, indolore. Che non sforza il cervello.
Quando facebook va in tilt, come dicevo qualche post fa, arriva il terrore delle tenebre. La gente si sente abbandonata, neanche fosse morto l’internet.
La passività ha vinto.
È quella che ci impedisce di cliccare sui link di approfondimento, di capire perché la tecnologia Wi-Fi funziona così e non ha bisogno di fili, di condividere un post che ci piace, a meno che non sia di moda condividerlo; è quella che ci fa credere che Tarzan sia un film della Disney e non un romanzo ben più antico, è ciò che ci fa uniformare alla corrente del successo.
Che è successo solo per l’1%.
E niente, per tutti gli altri.
Nel condominio ballardiano, che riecheggia di esperimenti fatti coi topolini, il benessere consiste nell’avere tutto a portata di mano.
Una cultura a chilometro zero.
Il posto di lavoro, la scuola per i figli, lo svago, gli acquisti, i divertimenti: tutto in un condominio.
E nessuna voglia di uscire e capire altro.
L’atarassia da bulimia di stimoli.
Che è poi ciò in cui siamo inseriti.
E in cui erano inseriti i topolini di Universo 25, che hanno finito col cannibalizzarsi, autodistruggendosi.
Nel condominio, poi, arriva il blackout: gli ascensori non funzionano, i piani non sono illuminati, le comodità hanno cessato di funzionare. Per magia, come per magia avevano funzionato fino a quel momento.
Ma anziché uscire e guardarsi intorno, tentare di capire perché le cose non funzionano più, anziché liberare gli scarichi dell’immondizia intasati, si preferisce restare stravaccati sul divano, aspettando che le cose si risolvano da sé, che i problemi spariscano come per magia, tanto l’immondizia la possiamo sempre gettare nella tromba delle scale, se gli scarichi sono pieni. In culo a quegli stronzi che abitano ai piani bassi.
Se la sono cercata.
L’inizio della fine arriva sempre così, quando l’essere umano smette di essere personalità, smette di cercare, si siede e diventa tronfio e arrogante dei suoi successi.
Siamo sempre una specie dinamica, attiva, ambiziosa, con un po’ di zavorra che si perde per strada, perché ha scelto di restare chiusa nel suo comodo condominio.
Finché dura.