Fa piacere avere un libro bene stampato, ma chi è che lo legge per questo? (dalla “Confessione di un’anima bella”)
E’ una bellissima mattina. Calda e piena di luce. Io sto ancora smaltendo i bagordi di questa notte, ma essendo fondamentalmente masochista, non ho resistito e mi sono collegato. Il risultato?
Ebbene, sono tornati. Più forti e combattivi di prima, con la nuova grinta che l’autunno imminente suole concedere, dopo la ricarica estiva. Sono tornati a sbraitare sulla letteratura.
Io mi limito a sorridere, per lo più. Cosciente del buco nero che è la letteratura italiana oggi. Tutta quanta, di genere e non. Elevata e non. Criticata e non.
C’è una domanda che mi faccio spesso: l’opera pubblicata è letteratura? Mi spiego meglio, la pubblicazione fa la letteratura?
Dal momento che un libro fantasy viene pubblicato, dovremo aspettarci di studiarlo, tra qualche anno, nelle università, pur trattandosi di un libro mediocre e vuoto?
Io, ancor oggi risponderei che no, la pubblicazione non fa la letteratura. Qualsiasi testo scritto è letteratura. Ma temo che l’andazzo generale non prenda neanche in considerazione questo semplice assunto.
Visto poi che mi si accusa pubblicamente di dire stronzate… Pubblicamente, ma in forma colloquiale, di persona. Perché, si sa, scripta manent, e quindi farlo su questo blog pesa – pur non tirando in ballo come al solito tutte le paranoie derivanti dal login che, ne sono sempre più convinto, esistono e condizionano pesantemente l’utenza – e, in più, ci si arroga il diritto di rovinarmi il sabato sera, piantando grane e formulando critiche amorfe.
Il vero problema della letteratura è la mancanza di tecnica e l’assoluta inconsistenza della disciplina che serve per farla e parlarne.
Sì, ci sono le consuetudini grammaticali, è vero. Cosa sono queste se non tecnica?
Ma siamo seri. Nessuno si azzarda a confutare un fisico nucleare che disquisisce sulla sua materia di studi, se non, ovviamente, un altro fisico.
Sulla letteratura, chissà perché, tutti vogliono dire la loro. Con sicurezza estrema. Una sicurezza che gli scienziati possono solo sognare.
E la sicurezza con la quale si disserta va di pari passo con l’arroganza. E quest’ultima aumenta esponenzialmente con l’aumentare dei manuali letti.
Fottutissimi manuali.
Rido quando mi accorgo che gli utenti ospiti, che non appartengono alle cricche dei leccaculi, o in termini meno terreni, ai gregari vengono puntualmente insultati e ridicolizzati quando osano esprimere pareri discordi da quelli dei lettori-critici-dei di internet-salvatori della letteratura.
Rido quando mi accorgo che, nonostante si sbraiti dalla mattina alla sera sull’esattezza e la conformità del genere letterario, si neghi il principio che sta alla base del genere letterario, ovvero la ripetitività.
Ho ripescato un passo interessante, per cui, per una volta, lascio che sia “il professionista” a parlare, non un aspirante scrittore come me, per di più alle prese coi postumi da sbornia. In fondo, cosa ne so io? eheheheehhe
IL ROMANZO “DI GENERE”
Il romanzo “di genere” si colloca ai margini della cosiddetta letteratura “alta”, in quella regione periferica della produzione romanzesca che è stata definita “letteratura industriale”, “commerciale”, “popolare” o “di massa”, e che oggi viene compresa sotto il termine relativamente neutro di “paraletteratura” (cfr. Couégnas 1997). Si tratta di un campo variegato e multiforme – molto legato al cinema, alla televisione e ai fumetti – in cui possono essere isolate diverse sottospecie: il romanzo poliziesco o “giallo” (detective novel), fondato da Poe e da Wilkie Collins e poi sviluppato da Emile Gaboriau, da Gilbert Keith Chesterton, da Arthur Conan Doyle, da Georges Simenon e da Agatha Christie; il romanzo di fantascienza di Isaac Asimov o di Ray Bradbury, eredi di Wells e di Verne (ma anche degli “anti-utopisti” Huxley e Orwell); il romanzo “rosa” delle serie femminili; il romanzo umoristico alla Wodehouse; il romanzo cosiddetto “per ragazzi”.
Anche se non è sempre facile tracciare un confine netto tra produzione “alta” e “bassa” (chi potrebbe inserire Collodi e Tolkien, ad esempio, nella casella degli “autori per ragazzi”?), è possibile tuttavia isolare alcuni tratti che caratterizzano il romanzo paraletterario rispetto al romanzo propriamente detto. I testi “di genere” sono basati infatti sulla ripetizione di formule e motivi, più che sulla creazione di nuove forme: la loro riuscita non si misura sull’innovazione e sulla rottura, ma proprio sulla conformità al genere, sulla tendenza a confermare le attese e a proporre alcuni schemi o modelli fortemente codificati, che il lettore può immediatamente riconoscere. In questo modo, anche i contrassegni esteriori – il titolo, la collana in cui viene pubblicato il libro, l’aspetto grafico della copertina – inquadrano immediatamente il testo in un paradigma molto definito, governato da una grammatica di regole precise e di situazioni ricorrenti. (da “Romanzo” di Federico Bertoni)
Lo vedete? Gli editori non fanno altro che assecondare la tendenza e riproporre situazioni canoniche. I lettori-critici ringhiano sulla mancata consuetudine stilistica e obiettano sull’assenza di innovazione.
E, di fronte a tali manifestazioni di pochezza intellettuale, a me scappa da ridere.
😆
In fondo, sono il solito clown…