Lo scrittore scrive o racconta? E’ la medesima cosa? Sì, no? E deve necessariamente rientrare in certi canoni, quando si appresta a scrivere o raccontare storie di genere? Mi sono sufato di ragionare su questa polemica. Per me la letteratura è unica, tutto il resto sono sfumature inventate per motivi ben precisi che non condivido. Per catalogare, per l’esigenza di etichettare, di mettere ordine.
Forse io non la sento quest’esigenza perché sono intrinsecamente disordinato in rapporto ai canoni vigenti in materia.
Ve la siete mai figurata la vostra scrittura? Se poteste, qual è l’immagine che le attribuireste? Io ci ho pensato. Quella che mi viene in mente oggi è una camera da letto. Semplice, ma per certi versi romantica. Pulita e senza ombre. Tipo questa qui.
Per taluni, invece, la scrittura dovrebbe essere così:
Un museo di feng shui più che una casa da vivere, attraverso la quale ci si possa raccontare.
Vedete, io non mi stanco quando scrivo. E soprattutto scrivo di getto, senza starci a pensare troppo. Se siete tra quei pochi che hanno letto qualcosa di mio, sapete di cosa sto parlando. Una volta impostata la linea narrativa, raramente torno indietro per disfare ciò che ho scritto. Le cose sono andate così, così si sono svolti i fatti, il protagonista è ferito, o peggio, e non si torna indietro, come nella vita; tutt’al più se ne fa un altro.
Una volta finito, subentra l’odio, la crisi di rigetto per ciò che ho appena scritto, tant’è che sono costretto a separarmene per non strappare i fogli o usare il delete sullo schermo. Non sono mai soddisfatto di ciò che scrivo, ma mi diverte farlo.
Infine, quando il disagio momentaneo è finito, subentra la fase più difficile. La correzione. La correzione della bozza. Editing è decisamente un termine che aborro.
La magia del testo corrisponde alla sua infinita capacità di nascondere i suoi errori. Dopo dieci riletture scopro, non senza amaro divertimento, che ancora refusi, espressioni strane, spostamenti semantici, paragoni e metafore azzardate, si celano tra una battuta e l’altra e sogghignano trionfanti, perché hanno resistito più degli altri orrori.
Alcune volte li lascio lì dove sono, gliela do vinta. Non perché mi convinca della loro bontà, ma perché mi piace il suono, il ritmo di quell’errore che ho creato, pur essendo consapevole che ogni errore lasciato sopravvivere è un punto debole in più per il suo autore che espone il fianco ai criticoni.
La licenza poetica. Gira una strana teoria secondo la quale la licenza poetica è legittima e tollerata solo se applicata da personaggi già grandi. Se tu che la usi sei, come me, un perfetto Nessuno, la tua non è già licenza poetica, ma ignoranza e incapacità manifesta. In breve si è tacciati di incompetenza. Bene, questo è un pregiudizio bell’e buono.
Vedete, a fare i critici non è che poi ci vogliano tutte ‘ste capacità. Basta avere buone nozioni generali e conoscere il significato delle parole. E’ così si può stroncare, al di là di ogni dubbio, una frase dei tipo: “Le farfalle beccheggiano”. Le barche e gli aerei beccheggiano, non le farfalle. Giusto. Corretto. Ma le avete mai viste le farfalle? Perché, per me, beccheggiano, quando si dondolano sui fiori cedevoli e si affannano a non cadere dando colpetti d’ala per starsene in equilibrio.
Eh, ma, non è corretto.
Eh, già, non è corretto, ma è bello, almeno per me. Per me è bello, poi che tu, lettore o critico, lo trovi corretto o no, non me ne frega niente. Ciò che mi innervosisce è che si preferisce pensare all’ignoranza dell’autore piuttosto che a una scelta consapevole.
Ciò che mi ferisce è che il linguaggio, dinamico per natura, in quelle circostanze diviene statico e immutabile e le sue consuetudini divengono spade con le quali trafiggerti e negarti ogni possibilità.
Ma, per una buona volta, volete rendervi conto che il linguaggio è stato creato da esseri umani come me e voi, senza alcuna regola che non fosse l’utilizzo quotidiano? Alcune forme risultavano belle e sono sopravvissute fino a oggi, altre meno e sono morte. Tutto qua.
L’aspetto più divertente di questa faccenda è che questa relatività del linguaggio, la sua variabilità intrinseca, è l’aspetto più detestato, persino negato, da parte dei sostenitori della correttezza della forma a tutti i costi: le armate di Jonathan Prichard.
Vedete, il soldato tipo di quelle armate, non nasce così, già fatto e finito, scolpito con l’accetta, lo diviene dopo anni di naturale attitudine all’arroganza esercitata e alimentata da manuali di regole astruse, scritti, per la maggior parte, perché i loro autori potessero celebrare il loro successo e perché gli fosse messa sotto il culo una cattedra universitaria nel migliore dei casi.
La Teoria della Letteratura e la Sociologia della Letteratura sono materie che ho studiato e che ho adorato e che mi piacciono tuttora, ma sono anche la quintessenza dell’astrattismo. Si basano sul nulla e ritornano nel nulla al sorgere di una nuova ipotesi che nega le precedenti.
Questa non è scienza, è una piacevole chiacchierata, persino utile, intorno al fenomeno arbitrario che è la lingua. Scambiare opinioni su qualunque cosa non è mai inutile.
Perché tante persone si inventano scrittori piuttosto che pittori o disegnatori o scultori o musicisti?
La mia risposta è semplice. Lo scrittore si inventa tale perché sa scrivere da quando era bambino. Gliel’hanno insegnato. L’hanno insegnato a tutti. Cosa ci può essere di più spontaneo? Di più naturale, di più facile, di più ovvio che scrivere?
Inutile dire che scrivere non è mai facile e non è mai ovvio. Se lo fosse, scriveremmo solo liste della spesa. Può essere spontaneo o costruito, ma con sé porta sempre molta fatica.
Così come lo scrittore, il critico nasce dal lettore che è in ognuno di noi. Perché tanta gente critica, anche aspramente, insultando e rendendosi odiosa? Perché ha letto decine, centinaia di libri e, soprattutto, ha letto i manuali di coloro che hanno letto prima di loro e che si sono inventati che esistono regole per la scrittura e per la lettura. Regole fatte e finite, asfittiche, limitanti, che ti fottono il cervello. Sono stati grandi nomi a porre queste regole, per cui, devono essere giuste e incontrovertibili, no? Van Gogh, lì sopra, era del tutto ignorante circa la prospettiva o pur essendone consapevole sceglieva di ignorarla? O, magari, era semplicemente pazzo? Chi può azzardarsi a dire qual è il modo giusto di vedere le cose?
Il fuoco brucia. E’ una regola, giusto? O una realtà? Tutti gli animali se ne tengono lontani, no? Quindi, come ti è venuta l’idea astrusa di prenderlo per cuocerci la carne, eh? Sei pazzo? Ti conviene lasciar perdere e fare come tutti gli altri, la carne cruda non ha mai ucciso nessuno.
Invece la carne cruda uccide… attraverso i parassiti che si annidano in essa.
Eh, ma la dovevi specificare subito, la storia dei parassiti. Dire “la carne cruda uccide” è sbagliato, non significa nulla!
Vabbé, prenditi le tue medicine e torna a dormire, su! E’ stato solo un brutto incubo, ora sei sano e salvo e di nuovo nel 1955…